Sorprese, violenze, amori inconfessabili, assassini. Qualcuno dice di vedere tuttora lo spettro di Beatrice Cenci. Secondo la leggenda popolare compare ancora adesso nella notte tra il 10 e l’11 settembre. Vaga sul Ponte Sant’Angelo a Roma, portando in mano la sua testa. Beatrice Cenci fu decapitata l’11 settembre 1599 per mano di un boia dello Stato della Chiesa. Prima di salire sul patibolo e prima che la spada del carnefice le tagliasse la testa disse: «Signore tu mi chiami e io di buona voglia ti seguo, perché so di meritare la tua misericordia».
Beatrice, bellissima, aristocratica, morì giovanissima ad appena 22 anni, al tramonto del Rinascimento. È uno dei miti e dei misteri della lunghissima storia di Roma. La sua esecuzione attirò una folla enorme e le autorità pontificie furono costrette a rafforzare le truppe inviate per impedire tumulti popolari. La gente di Roma faceva il tifo per lei. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sembra che assistette all’esecuzione. Il grande pittore milanese, veloce con la spada, amava le sensazioni forti. Sarà una coincidenza, ma il suo quadro di Giuditta che decapita Oloferne è di quegli anni. L’ispirazione potrebbe essergli venuta da quel macabro spettacolo che fece accorrere lui e una valanga di romani. Sembra che fossero presenti anche altri due pittori romani: Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia. Quell’11 settembre 1599 era una giornata afosa, molto calda. Ci fu ressa. Molte persone presenti si sentirono male, si versò molto sangue: diverse persone morirono, alcune caddero addirittura nel Tevere e perirono affogate.
Beatrice, la matrigna Lucrezia Petroni e i due fratelli, Giacomo e Bernardo, furono accusati di aver fatto uccidere il padre, il conte Francesco Cenci. Beatrice, la matrigna e i due fratelli alla fine confessarono, ma sotto tortura, di aver organizzato l’assassinio. La ragazza, si racconta, fu sottoposta al terribile supplizio della corda per farla confessare: le furono legate le mani dietro la schiena e con una carrucola fu sollevata da terra dalle mani. Le braccia si slogarono provocando dolori atroci. Solo Bernardo non fu giustiziato per la giovane età (aveva 18 anni) e fu mandato a remare sulle galere pontificie, mentre gli altri tre furono condannati a morte: a Beatrice e a Lucrezia fu troncato il capo, Giacomo fu squartato, un supplizio feroce. Furono tre morti atroci. Il tribunale fu inflessibile, dai giudici fu lasciato poco spazio all’avvocato della difesa. Il Papa Clemente VIII respinse tutti gli appelli alla clemenza.
Il conte Francesco Cenci era un uomo lesto di mano, violento, depravato, pieno di debiti, accusato di mille delitti. Fu accusato di turpi omicidi: ordinò a un sicario di uccidere una bella fanciulla che respinse le sue profferte sessuali. Fu condannato due volte “per colpe nefandissime”. Andò in carcere, ma ne uscì rapidamente: era un uomo potente, appartenente a una delle famiglie più importanti di Roma. A casa maltrattava e picchiava i familiari. Sembra anche che abusasse sessualmente della figlia Beatrice della quale si era invaghito, in città correva la voce orribile dell’incesto.
Potere, ricchezza, abominio. Una miscela perversa. La famiglia alla fine del 1500 abitava nel palazzo Cenci, quasi al confine tra il rione della Regola e quello di Sant’Angelo. Ma Francesco fu ucciso nel castello di Petrella Salto, vicino Rieti, luogo di soggiorno dei Cenci. Sembra che prima scampò alla trappola del veleno e poi all’imboscata di alcuni briganti, ma alla fine fu ucciso dal guardiano del castello Olimpio Calvelli (pare fosse l’amante segreto di Beatrice) e dal maniscalco Marzio Fioran, detto il catalano. La dinamica tramandata è raccapricciante: Francesco fu drogato, poi Calvelli lo uccise trapassandogli il cranio con un lungo chiodo e quindi squarciandogli la gola; avrebbe completato l’opera con un martello. Tutti e due prima negarono, poi confessarono il delitto sotto il dolore della tortura della corda.
Il popolo di Roma parteggiava per Beatrice, ne faceva l’eroina contro i soprusi, le prepotenze, le violenze degli aristocratici che governavano il Senato di Roma. Dal processo, però, sembrò che emergessero le prove della colpevolezza della ragazza, dei familiari e dei due esecutori dell’omicidio. Il Papa volle dare un esempio contro i tumulti e le violenze che sconvolgevano la città. Tuttavia è un fatto che un nipote di Clemente VIII comprò per una cifra molto modesta grandi beni immobiliari della famiglia Cenci.
La città conserva ancora adesso la memoria di quella tragedia. Il comune di Roma nel 1999 ha posto una targa in ricordo di Beatrice in via Monserrato, antica sede del carcere di Corte Savella, dove fu imprigionata la ragazza prima dell’esecuzione. Sulla targa posta a un passo da piazza Farnese, sede della magnifica ambasciata di Francia, c’è scritto: “Da qui, dove sorgeva il carcere di Corte Savella, l’11 settembre 1599 Beatrice Cenci mosse verso il patibolo, vittima esemplare di una giustizia ingiusta. S.p.q.r. 1999”.
Prepotenze, delitti, sangue. La tragedia ispirò grandi artisti. Beatrice, in un quadro di Guido Reni, appare come una bella ragazza dal volto triste e pallido. Ha in testa una specie di turbante e addosso un mantello, tutti e due bianchi. Sembra avvolta da un sudario funebre. Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley ha scritto su di lei una tragedia; gli scrittori francesi Alessandro Dumas e Stendhal le hanno dedicato due romanzi.
Una statua di Beatrice Cenci è stata scolpita nel 1800 dall’americana Harriet Goodhue Hosmet. Un gesso dimenticato della scultura è stato rinvenuto alcuni anni fa per caso nelle cantine dello splendido palazzo Cenci Bolognetti a piazza del Gesù, un immobile comprato alla fine del 1700 dai discendenti della bella ragazza decapitata davanti Castel Sant’Angelo.
Intrighi, potere, veleni. Il palazzo Cenci Bolognetti è famosissimo: dal dopoguerra e fino al 1994 ospitò la direzione nazionale della Dc, il partito cardine della ricostruzione della democrazia in Italia dopo la caduta della dittatura fascista. Dalle stanze del palazzo di piazza del Gesù numero 46, notissimo ai giornalisti parlamentari non più giovanissimi, sono passati i grandi segreti della Prima Repubblica. A “Piazza del Gesù” lavorarono personaggi come Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita. Lì si tenevano le riunioni della segreteria, dell’ufficio politico, della direzione della Democrazia cristiana. In quelle stanze affrescate con scene mitologiche si decisero le scelte del centrismo, del centrosinistra con il Psi, dei governi di unità nazionale con il Pci e il ritorno al centrosinistra con la formula del cosiddetto Pentapartito.
Sopraffazioni, devastazioni, libertà. A Roma si sono sempre alternate miserie e genialità, bellezza e nefandezza, coraggio e turpitudine. Beatrice Cenci è un po’ un simbolo dei contrasti della Città eterna. Anche da morta la sorte l’ha perseguitata. Quando nel 1798 le truppe napoleoniche invasero Roma, un gruppo di soldati francesi, arrivati per portare la libertà e l’uguaglianza della rivoluzione del 1789, entrò nella chiesa di San Pietro in Montorio, dove era stata seppellita Beatrice. La chiesa fu depredata, furono sfasciate le lapidi delle tombe per impadronirsi anche del piombo delle bare. Fu profanata pure la tomba di Beatrice, fu rubato il vassoio d’argento sul quale riposava il capo. Un soldato o uno scultore francese, si dice, prese il teschio e lo lanciò in aria e ci giocò come se fosse una palla.
R.Ru.