Lo sciopero Alitalia del 5 aprile contro i pesanti tagli chiesti da Ethiad mette sotto gli occhi del Paese l’ennesima crisi della compagnia aerea. A fare le spese del piano d’esuberi presentato dall’azionista di Abu Dhabi saranno soprattutto i dipendenti romani: 2037 tra personale di terra e impiegati negli uffici della capitale, più 400 “esternalizzati” nell’aeroporto di Fiumicino.
La trattativa con il governo sugli ammortizzatori sociali è tutta da fare e dovrebbe concludersi, secondo la richiesta del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, entro il 13 aprile. Ma una cosa sembra già acquisita. Alla fine, anche il migliore degli accordi si risolverà in una mazzata per la traballante economia romana. L’ex compagnia aerea di bandiera si aggiunge a una lunga lista di aziende in via di chiusura o in fuga dalla capitale. Secondo recenti calcoli della Cigl, attualmente nel Lazio si contano circa 11 mila posti di lavoro a rischio, di cui almeno la metà in imprese romane.
Si tratta di una crisi diffusa che trova molte spiegazioni. Non ultime l’immobilismo e l’inaffidabilità del Campidoglio. Non a caso il numero delle aziende che abbandonano la capitale per spostarsi a Milano sta crescendo in maniera esponenziale. Se questo è il quadro, il nuovo collasso dell’Alitalia è destinato inevitabilmente a concentrare i riflettori dei media e l’attenzione dell’opinione pubblica.
La scoperta che l’azienda controllata dall’emiro di Abu Dhabi continua a perdere ogni giorno più o meno la cifra della “compagnia aerea di bandierina”, della cordata patriottica italiana imposta da Silvio Berlusconi con la privatizzazione del 2008, è a prima vista sorprendente. Chi non ricorda il sospiro di sollievo con cui a fine 2014 venne accolto l’accordo per la cessione del 49 per cento a Etihad, la più grande compagnia aerea del Medio Oriente? L’emiro, si diceva, non avrà problemi a investire per rilanciare Alitalia. Non ha fatto uno degli ordini d’acquisto d’aerei più importanti nella storia del trasporto aereo? Non ha deciso di dare l’assalto ai giganti dei cieli, assumendo il controllo azionario di una serie di compagnie aeree da mettere in rete?
Questo scrivevano i giornali un paio d’anni fa. Non è andata proprio così. La nuova Alitalia ha continuato a soffrire dello stesso problema strutturale di sempre: troppo grande e troppo piccola. Troppo grande per competere con le low cost e troppo piccola per poterlo fare con Air France o Lufthansa. Certo Etihad aveva subito annunciato un cambiamento di rotta, uno spostamento dai poco remunerativi voli nazionali, al ricco mercato dei collegamenti internazionali. Ma poi ha fatto poco o niente. Continuando a perdere denaro sul breve raggio, dove deve fare i conti con Ryanair, senza investire sul lungo raggio. Anche adesso, nel nuovo piano industriale presentato insieme agli esuberi, sono previsti 14 nuovi aerei destinati al lungo raggio entro il 2021. Ma da qui al 2018 ne arriveranno soltanto due.