La filiera grano-pasta è un settore trainante del Made in Italy. È uno dei fiori all’occhiello dell’agricoltura e dell’industria alimentare italiana. Ma i problemi non mancano e vanno affrontati prima dell’arrivo di danni irreparabili. I nemici in agguato contro gli spaghetti sono tanti. Andiamo per singoli capitoli.
La qualità del grano italiano sia tecnologica che igienico-sanitaria c’è, ma non è un dato assoluto, come tanti fenomeni biologici, appunto. Non funziona così per un’attività che si svolge senza tetto e può risentire di annate climatiche sfavorevoli. Se piove ed è molto umido quando la pianta si trova in prossimità della spigatura, alcuni tipi di funghi possono attaccare la coltura e il loro metabolismo secondario determina lo sviluppo della principale e più frequente micotossina del grano, che in generale si trova nelle coltivazioni del Sud a valori molto bassi, ampiamente sotto i limiti.
Quindi la presenza di micotossina non è indice di provenienza estera del grano. Da sempre la tradizione italiana è quella del prodotto pasta, apprezzata e ampiamente venduta nel mondo, ma specie in passato si ricorreva massicciamente alle importazioni, soprattutto della pregiata varietà Tangarong dalla Russia. Oggi spesso le importazioni sono inevitabili per carenze quantitative della materia prima, che potrebbero essere diminuite con politiche di incentivi, oppure per migliorare la qualità del prodotto.
Il prezzo basso non è dovuto alle importazioni, in quanto è deciso dalle Borse merci mondiali delle “commodities”. È il liberismo delle merci su cui è arduo intervenire, se non con accordi commerciali e negoziazioni di politica economica.
Comunque sia, la pasta con grano 100% italiano è già prodotta: ci sono in commercio oltre 40 marchi. Bisogna organizzarne però la produzione con grossi lotti qualitativamente omogenei, con stoccaggio differenziato.
Sarebbe opportuno poi non demonizzare la pasta, per non screditarla anche all’estero. Se diminuiscono le esportazioni calano preziosi posti di lavoro in regioni non ricchissime, come il Sud in generale e l’Abruzzo, e anche l’utilizzo del grano duro nazionale, visto che produciamo comunque di più di quanto “mangiamo”. La celiachia un tempo era “sconosciuta”, come le micotossine del resto, non perché non esistessero, ma proprio perché non conosciute dal punto di vista scientifico. Aver finalmente affinato i mezzi di indagine, e quindi la casistica, non vuol dire che una patologia sia “aumentata”.
Serie e importanti indagini epidemiologiche, svolte su decine di migliaia di individui in USA e in Europa, non evidenziano nessun aumento. I celiaci ufficiali in Italia rimangono sotto i 200.000. Ipotizzando che molti non siano ancora stati diagnosticati, il totale potrebbe essere di 600.000 persone su 60.000.000 italiani. Sostenere che il glutine sia dannoso mette a rischio coloro che potrebbero decidere di non mangiarne più senza motivo, e inoltre danneggia l’enorme filiera che parte dal grano, che è alla base della sopravvivenza dell’agricoltura centromeridionale e della sostenibilità dei suoi territori, nonché dell’agroalimentare italiano e dei relativi milioni di posti di lavoro.
Anche la sensibilità al glutine non celiaca è un argomento assolutamente non definito in ambito scientifico internazionale. Risulta che non esistono marker diagnostici che consentano di identificare con certezza questa condizione, e l’Ordine dei Medici italiani ha recentemente fatto propria questa conclusione.