Sinistra di governo, riformista, radicale, massimalista, antagonista. In Italia esistono molteplici e diverse sinistre frutto d’impostazioni politiche differenti e di scissioni a catena. Lo scontro permanente ha provocato frammentazione e irrilevanza. Sulla profonda crisi della sinistra italiana riceviamo e pubblichiamo un articolo di Aldo Pirone.
«Prima ci mettiamo d’accordo su cosa fare. E poi ragioniamo di alleanze. Parliamo di contenuti». Ineccepibile. È la posizione che Renzi oppone a chi, in questi giorni, lo invita a non lacerare definitivamente
ogni possibilità di alleanza di centrosinistra. Lo ha ribadito anche nella riunione della direzione Pd del 6 luglio. Dal punto di vista metodologico l’impostazione renziana non fa una piega, solo che poi quando lui va ai contenuti non fa altro che ripetere quelli già noti e stranoti che hanno costituito la sua azione di governo. Cerca sempre più, e a scoppio ritardato, di enfatizzarli dentro la solita narrazione ottimistico-futurista che è stata respinta a più riprese dagli interessati: gli elettori.
Ma Renzi non se ne dà per vinto; crede che non sia stato capito dagli italiani, e non perché quelli non si sono accorti granché dei grandi benefici apportati alla loro condizione sociale e spirituale dal renzismo, ma perché non è riuscito a comunicarli come si deve. Sebbene il notevole aiuto venutogli da TV e dalla stragrande maggioranza della carta stampata, che a reti e edicole unificate ha cantato le sue lodi di grande e insostituibile leader almeno fino al risultato catastrofico, per lui, del referendum del 4 dicembre scorso. L’unica autocritica sua e di quelli che gli stanno attorno come l’ineffabile Graziano Delrio è: bisogna fare di più, occorre cambiare passo.
Che, invece, urga cambiare strada, è un pensiero che manco li sfiora. Ma, a parte questi dettagli, il Renzi nel porre la metodologia dei contenuti come base di ogni intesa politica, scavalca un bel po’ a sinistra tutti coloro che chiedono a lui e ai radicali dissenzienti di unirsi. Anche se è solo una furbata, perché il suo rifiuto di parlare di alleanze non è perché vuole parlare con il popolo, è che non può dire quello che sull’argomento pensa veramente: il vero interlocutore è sempre il suo vecchio amore nazarenico, Berlusconi.
Per contro c’è il coro da tragedia greca che, alla sua sinistra, le vedove inconsolabili dell’antica alleanza elevano ogni giorno davanti alla pira su cui arde il corpo del vecchio Ulivo. Alcuni lo fanno con effetti anche esilaranti. Andrea Orlando, reduce dai trionfi elettorali del centrodestra nella sua La Spezia, dice, a chi gli chiede conto della sua remissiva partecipazione nel parterre di Santi Apostoli ai piedi di Bersani e Pisapia, che quella piazza non era alternativa al Pd. Evidentemente non ha ascoltato, non tanto il discorso di Giuliano “il federatore”, quanto il boato di dissenso che ha accolto il nome di Renzi fatto da Bersani. Al quale sembrava un po’ troppo che, conclamando discontinuità nei confronti delle sue politiche, non si facesse il nome dell’autore. Un po’ come quando Veltroni non nominava Berlusconi per non sembrare troppo antiberlusconiano, chiamandolo con una circonlocuzione: il capo dello schieramento a noi avverso. Il Cavaliere ringraziò sentitamente, asfaltando il Pd
nelle urne.
O come il ben educato Gianni Cuperlo che, non avendo ancora capito che la guerra al renzismo fatta dall’interno è finita, continua a combatterla nella jungla del Pd, come quei soldati giapponesi dispersi nel Pacifico che non sapevano che gli americani avevano vinto la pugna già da qualche decennio. Dice Gianni che lui non vuole arrendersi alla scomparsa dell’alleanza di centrosinistra perché non vuole consegnare il paese alle destre e ai populismi. Cosa già avvenuta proprio grazie alle performance del Pdr (Partito di Renzi). E per trarsene fuori occorre applicarsi con urgenza a creare qualcosa di efficace a sinistra, invece di perdere tempo a rianimare le mummie.
A ostacolare la nascita di qualcosa di serio a sinistra, invece di continuare a inseguire Renzi, si è creata una sorta di “catena di Sant’Antonio”. L’anello principale comincia da “la Repubblica” con la famiglia editoriale di De Benedetti, la sua redazione, le sue penne di punta, salvo rarissime eccezioni; il direttore Mario Calabresi, gli orlandiani Michele Serra e Corrado Augias, tutti dediti a perorare le cause della santa alleanza e a sbertucciare ogni tentativo a sinistra di alzare la testa di là del solito politicismo. Tra i columnist di complemento ci sono pure alcuni del “Corriere della Sera” come lo storico Paolo Mieli.
A presiedere l’élite c’è un vecchio boy scout, Romano Prodi, che pianta e chiude tende; e che quando si lascia
andare, come al Congresso della Cisl, cita ad esempio Corbyn, ma poi torna in sé per dire che in fondo lo scontro a sinistra col Pd è solo una questione di rancori e vecchie ruggini personali. A questi si aggancia l’anello di Pisapia “il federatore” che per rendere chiara l’idea di chi vuole federare, si porta appresso anche Tabacci e una congregazione di vecchi democristiani e forzaitalioti come Sanza e il campano Michele Pisacane. Il quale, dopo essere transitato per Ccd, Cdu, Udeur (centrosinistra), Pid (centrodestra), Popolo e Territorio nel Pdl berlusconiano, dice, giustamente, chiaro chiaro «Non sono di sinistra, né di destra e neppure di centro. Sono democristiano».
Appresso viene Bersani con mezzo Mdp che l’altro mezzo sta con D’Alema, il meno propenso a stare agganciato alla catena, ma costrettovi dopo aver sentito cosa pensano di lui alla manifestazione del Brancaccio quelli di Montanari e Falcone. Poi, a seguire, più o meno per forza, c’è Civati con il suo “Possibile” che, vista la situazione, sembra più un’esclamazione d’incredulità che non un traguardo raggiungibile. A terminare la catena, quindi, ci sono Fratoianni e Fassina di SI che propenderebbero per una via alternativa ma, temendo una corsa elettorale in solitaria, cercano di rimanere agganciati agli altri anelli. Gli unici che se ne stanno al di fuori sono il nucleo
rimasto di Rifondazione comunista e il nascente, se ce la fa, movimento di Montanari e Falcone, non a caso escluso dal palco di Santi Apostoli. Troppo radicali con il loro rifarsi ai contenuti della Costituzione; troppo alternativi soprattutto negli uomini e nelle donne.
Meglio aspettare che maturino un po’ di più in fatto di bella presenza e di politically correct, che sono ingredienti indispensabili per essere “sinistra di governo”. Che è l’unica specie di sinistra conosciuta qui da noi. Talmente “di governo” che, col tempo, pur di governare ha fatto per lo più cose non di sinistra. Perché il potere è il potere, mica quisquilie. Non è adatto, come dice Michele Serra, ai “virtuosi”; rifugge come la peste i sognatori, gli irrealisti, non serve per applicare le proprie idee, ma per starci appiccicati, a prescindere, come le mignatte.
Sant’Antonio, com’è noto, appartenente all’ordine francescano, combatté aspramente i movimenti ereticali interni alla Chiesa del Trecento e in particolare quello degli albigesi. Movimenti che tendevano, sotto forma di eresia religiosa, a rappresentare la rivolta delle plebi di quei tempi contro una Chiesa lontana dai poveri, fattasi mondana e guardia degli ordinamenti feudali. La catena di cui si è qui parlato, non per caso a lui intitolata, sembra proprio formata per ostacolare “l’eresia” di una sinistra che torni a ritrovare se stessa, i suoi valori, i suoi referenti e le sue ragioni sociali.