Fuori un altro. Il nuovo direttore generale dell’Atac, Bruno Rota, è durato solo cento giorni. In un’intervista al Corriere della sera aveva detto che l’azienda municipale dei trasporti ha bisogno di una cura da cavallo, è sull’orlo del crac, con debiti che ormai mettono a rischio il pagamento degli stipendi, fornitori alla gola, personale allo sbando, sindacati e sindacatini che fanno il bello e cattivo tempo.
L’uscita di Rota era stata accompagnata dall’assordante silenzio della Raggi, mentre dal suo entourage filtravano voci di un allontanamento. Detto, fatto. Il direttore generale voluto da Casaleggio, e mai sostenuto dalla sindaca, è stato costretto a gettare la spugna. Con una coda velenosa. Rota sostiene che lui l’intervista l’ha data dopo essersi già dimesso il 21 luglio con lettera regolarmente protocollata, ma che doveva restare riservata per qualche giorno. E la replica dell’azienda che arriva a stretto giro con uno sgradevole comunicato: «Atac precisa che le dimissioni del direttore generale, sono state presentate su richiesta dell’amministratore unico Manuel Fantasia ieri pomeriggio (27 luglio n.d.r.). Al protocollo aziendale, citato dal dott. Rota, non è mai risultato alcun documento allegato e neanche adesso è presente. Le dimissioni del dottor Rota sono state accettate oggi».
Siamo di fronte allo stesso spettacolo andato in scena a settembre dell’anno scorso, quando Virginia Raggi spinse alle dimissioni un altro direttore generale, Marco Rettighieri, nominato dal commissario straordinario Tronca prima delle elezioni e subito dopo il voto entrato in rotta di collisione con la nuova sindaca. Proprio perché diceva le stesse cose dette da Rota. E come lui voleva le deleghe e i poteri necessari per rimettere in piedi l’Atac senza guardare in faccia a nessuno.
Rettighieri, che aveva maturato una lunga esperienza nelle Ferrovie dello Stato, era stato comunque più fortunato di Rota. Appena arrivato all’Atac le deleghe le aveva avute e aveva preso il toro per le corna. Licenziando una decina di dirigenti, mettendo le telecamere nei depositi dove rubavano di tutto, chiudendo le mense aziendali affidate a Cgil, Cisl e Uil da anni senza una gara d’appalto, consegnando un dossier alla magistratura.
La cosa non era piaciuta alla sindaca che lo aveva spinto alle dimissioni senza usargli nemmeno la cortesia di un incontro. Poche settimane dopo alcuni dirigenti licenziati erano già tornati al loro posto, la gestione della mensa era stata riconsegnata ai sindacati al solito prezzo di oltre quattro milioni di euro l’anno e così via. E lo sfacelo dell’azienda? Silenzio.
A settembre del 2016 l’Atac è affidata a un amministratore unico, Manuel Fantasia, individuato dal Campidoglio per sostituire il commissario Brandolese, dimessosi insieme a Rettighieri, che però non viene sostituito. Così l’Atac resta per sette mesi senza direttore generale, finché ad aprile arriva Bruno Rota, ex numero uno dell’Atm, l’azienda dei trasporti di Milano che ha ristrutturato e risanato.
Le cose si mettono subito male. Il nuovo Dg viene visto con sospetto, perché voluto da Casaleggio e perché vuole fare di testa sua. Resta per due mesi senza deleghe. Ecco le sue parole: «Sono arrivato in Atac il 18 aprile 2017. Per due mesi sono stato a guardare e a studiare, perché non mi sono state date deleghe operative, che sono arrivate solo il 28 giugno. Ma mi sono bastati dieci giorni di lavoro per capire la situazione dell’azienda, che ho subito riportato al sindaco».
Evidentemente la cosa non è piaciuta alla sindaca. Il problema è che per Virginia Raggi chi tocca l’Atac muore. Lo aveva spiegato bene Rettighieri poche settimane dopo la sua uscita: «Le mie dimissioni sono state motivate puntualmente. Una delle ragioni che mi ha spinto a lasciare nasce da un’intromissione che non mi ha fatto piacere: da una lettera ufficiale che l’assessore Meleo ha indirizzato a Brandolese e a me, in cui si intrometteva in affari di una società, anche se partecipata». Anche Rota pretendeva di fare il suo lavoro senza interferenze e ha pagato per questo.
F.Sa.