Straordinaria davvero, la campagna pubblicitaria di “Roma capitale” di questi ultimi giorni. La “monnezza”, con il corollario di topi, pantegane, piccioni ad alto tasso inquinante, gabbiani aggressivi se solo li guardi, sono lo scenario di quel mondo da incubo che fa la felicità di tutti i B-movie destinati, dopo dieci anni a essere promossi come dei “classici”.
Poi, la decina di giorni di passione (e bollore), Roma come in The Burning World, l’apocalittico romanzo di James Graham Ballard che “immagina” un pianeta diventato un immenso Sahara; la “scoperta” di una realtà conosciuta da sempre: una rete idrica farlocca, società dell’acqua gestite da manager che a volerli definire si finisce querelati. E lo spettro minacciato di migliaia di rubinetti chiusi, coi patetici battibecchi tra responsabile Acea, presidente regione Lazio, Campidoglio, e relativi pio-pio, bau-bau, bla-bla di politici di sempre pronta quanto inutile dichiarazione o twitter.
Ora la terza “piaga” capitale: l’ATAC, i trasporti pubblici. Sono sempre stati un calvario per chi sceglie per senso civico, o più spesso è costretto, a usarli. Chi li usa, lo sa. Gli anziani ricorderanno gli autobus di quarant’anni fa, quelli con ancora i controllori, e il ciclico: “Avanti! C’è posto…”. I biglietti erano striscioline di carta color mattoncino, cinquanta lire. L’autobus una vettura all’interno spaziosa, essenziale, almeno trenta sedili, studiati per ospitare quello che oggi viene chiamato “lato B”.
Poi sono arrivati gli autobus più “belli”, quelli moderni. Che devono essere stati studiati da progettisti che vogliono far guadagnare il Paradiso al passeggero: veri e propri percorsi di guerra, tra una selva di tubi, sedili che sono strumenti di tortura, a volte per inerpicarcisi occorre munirsi di piccozza e scarpe chiodate. Non c’è più il bigliettaio, le macchinette “obliteratrici” per lo più scassate; si sale e si scende ovunque. E insomma, non c’è bisogno di aggiungere altro: chi li usa, lo sa.
Con un’aggravante: si ha un bel dire che la popolazione invecchia, e che sono gli anziani a usare per lo più i mezzi pubblici. Venisse in mente a qualcuno di farli “testare”, prima di metterli in circolazione, a una pattuglia di settantenni, muniti di bastone o gravati da buste per la spesa. Macché. Più sono nuovi e più possono essere utilizzati come luoghi di allenamento per corpi speciali delle forze armate destinate a combattere i terroristi in Irak o Afganistan, roba che fa concorrenza al Fort Bragg dei “Delta Force”.
L’ultimo direttore generale di ATAC (ormai ex) Bruno Rota, in questi giorni non le manda a dire: «La dead line è superata…l’azienda l’ultima volta è riuscita a pagare gli stipendi nell’ultimo quarto d’ora…Una situazione che deve essere analizzata dal tribunale fallimentare…Per ATAC parlano i numeri. C’è un debito di 325 milioni soltanto con i fornitori».
Rota fa sapere che all’inizio non capiva bene di chi si doveva fidare: «Mi fidavo solo della Raggi. Poi mi è sembrato di aver capito di chi dovevo fidarmi. Però i fatti dimostrano che non ci avevo capito molto». Che un manager non romano ed estraneo ai maneggi capitolini, con un curriculum di tutto rispetto confessi di essersi fidato di Raggi appartiene alla sfera di quell’imperscrutabile che nessuno in questo mondo potrà mai spiegare.
Ma al di là di questo. Rota non è il primo a gettare la spugna. In appena un anno di governo, l’amministrazione Raggi-Movimento 5 stelle ha accumulato un “tesoretto” di dimissioni su dimissioni stupefacenti, e lasciato spesso per mesi senza guida settori cruciali della nostra città. Ora si assiste allo stesso processo: ATAC senza direttore generale, in un fase delicatissima con un debito ormai fuori controllo e una situazione complessiva della mobilità capitolina al collasso.
Come se ne possa uscire, francamente non lo si comprende. Anche la ventilata ipotesi di una privatizzazione dell’azienda: suggestiva, a prima vista. Però qualcuno spieghi dove e come trovare quel privato (o quel polo di privati), disposto a farsi carico di questo carrozzone. A meno che non si pensi a una soluzione alla Alitalia: creare una “bad ATAC”, e parallela, una “good ATAC”. Quella “buona” privatizzarla (e magari il privato se l’accaparra con agevolazioni pubbliche); e la “cattiva” la paga la collettività.
Se non così, come?
Ciliegina finale. Queste brevi note sono state scritte avendo a fianco una doppia pagina de Il Messaggero. Nella prima, un articolo a firma di Michela Giachetta e Fabio Rossi. Titolo: «Amarcord trasporti, a bordo dei bus torna il bigliettaio»; e ancora: «Per contrastare i ‘portoghesi’ il consiglio comunale chiede di reintrodurre la figura, dopo decenni di assenza…La mozione punta a risanare i conti dell’azienda del TPL: ‘è un deterrente alle aggressioni sui mezzi pubblici’…100 mln, la perdita economica stimata a causa dell’evasione tariffaria sui mezzi pubblici».
L’altra pagina “ospita” un’inchiesta a firma di Riccardo Tagliapietra: «ATAC, il boom delle assenze, ogni giorno a casa in 1.400…Malattie e permessi: quotidianamente non lavora il 15 per cento dei dipendenti. E negli ultimi anni il picco di autisti che chiedono l’inabilità alla guida. Nel fine settimana anche il caso, previsto nei contratti, dei conducenti pagati senza lavorare».
Volete sapere quando sono stati pubblicati questi due articoli? Il 26 febbraio 2014. Sui giornali, in televisione, politici di ogni colore con la faccia sdegnata e stupita. Facce di tolla.