Pur tra contestazioni e qualche violenza di troppo – nulla di paragonabile, comunque, all’inferno che si scatenò alla chiusura delle urne nel 2007 e che richiese l’allarmato intervento dell’ONU – i quasi venti milioni di kenyani chiamati al voto danno prova di maturità e scelgono decisamente la prospettiva della modernizzazione. Almeno il 54,3 per cento degli elettori incoronano per la seconda volta Uhuru Kenyatta, 55 anni, figlio di Yomo, padre fondatore dello stato autonomo e indipendente, protagonista della cacciata dei colonizzatori inglesi. Anche questa volta, al quarto tentativo, non ce l’ha fatta il leader dell’opposizione Raila Odinga, 72 anni, 44,7 per cento dei suffragi, che continua a tuonare contro una presunta, e non provata, falsificazione del risultato, accendendo le proteste dei suoi seguaci, numerosi nelle aree più povere e diseredate del paese, settimo – per popolazione – in Africa, con i suoi cinquanta milioni di abitanti, motore dell’economia dell’intero Corno d’Africa.
A confronto erano due divergenti, se non opposte, visioni dell’oggi e del domani del Kenya: l’uomo al governo del Paese fautore indiscusso del progresso della nazione, con un prodotto interno lordo che continua a crescere regolarmente. Nairobi, la metropoli capitale, che dal 2018 si fregerà anche del titolo e delle funzioni di seconda sede dell’ONU subito alle spalle di New York, un riconoscimento prestigioso dopo la sua avanzata come centro del business internazionale, grattacieli e tecnologia sofisticata, anche se restano – nelle desolate periferie – sacche rilevanti di sofferenza sociale e di arretratezza. Più tradizionalista, e spruzzato di pauperismo, l’orizzonte dell’eterno sfidante Odinga, leader di una eterogenea coalizione ‘arancione’, capo della famiglia da sempre avversaria dei Kenyatta. Insomma, una scelta che ha visto contrapposti i nuovi ceti medi e l’ormai robusta classe imprenditoriale delle grandi città alle fasce più deboli, prevalenti nelle ‘banlieue’, nelle campagne, sulla costa.
A Uhuru Kenyatta, inoltre, ha giovato molto la credibilità guadagnata presso l’Occidente grazie al ruolo positivo, interpretato con successo da anni, di argine eretto a difesa dalle frange terroristiche dell’Islam estremista, minacciose ai confini con la Somalia da una parte e con la Nigeria dall’altra, dove persistono focolai endemici di guerra. Un esercito forte e ben addestrato, che fa da ‘pendant’ a un’economia vivace, aperta alle relazioni con l’estero.
Per questo è vitale che il presidente confermato presti orecchio all’appello, giunto dalle colonne di ‘Oltrelequatore’, lanciatogli dagli imprenditori italiani – da lungo tempo profondamente inseriti nel tessuto socio-economico kenyano, – che gli raccomandano di non dimenticare il sostegno al turismo, che marcia e si riprende dopo il tonfo del 2012 malgrado la disattenzione delle autorità, risorsa straordinaria in un paese baciato dalla natura, cui il buon Dio ha regalato un asso nella manica non abbastanza messo a frutto.
Presidente Kenyatta, avanti con il turismo. E il suo Kenya diventerà più ricco e vincerà le ultime, residue diffidenze.