Mastica amaro, Barack Obama, anche se preferisce dissimulare. Ancora troppo giovane – 56 anni – per dedicarsi anima e corpo alla ‘pazza gioia’, troppo orgoglioso per immergersi nel ruolo di conferenziere pagato a peso d’oro o di ospite d’onore, orpello di ‘super-eventi’, sull’esempio di Tony Blair, che – ormai – grazie alle sue ‘consulenze’ colleziona dimore principesche in mezzo mondo, un ‘fantasma’ qualche volta inutilmente invocato dai laburisti britannici in crisi di leadership.
Lui, invece, primo presidente afroamericano degli States e per due volte, ha cominciato da tempo ad annoiarsi di vacanze per VIP e di applausi ‘alla memoria’ dovunque vada. Scalpita, in privato, di fronte all’incontrollabile ‘ciclone Trump’, che incarna l’America che ha sempre combattuto a viso aperto, pur con alterne fortune. Obama, come nella consuetudine non scritta seguita dagli inquilini della Casa Bianca che passano la mano, ha regalato mesi di ‘cortesia istituzionale’ al successore ‘tycoon’, ma – con gli amici più fidati, lontano da taccuini e telecamere – lo definisce «una mina vagante per la nazione».
Si frena, si autocensura, ma pare proprio che non ne possa più della regola dell’‘understatement’ che si è dato. Quello sta sconquassando i pezzi di ‘stato sociale’ che lui aveva faticosamente costruito, vedi l’‘Obamacare’, la riforma dell’assistenza sanitaria per i più deboli; ha tranquillamente stracciato gli storici accordi di Parigi sul clima. Trump in politica estera, tallone d’Achille di Barack ‘il temporeggiatore’, attua una linea muscolare. Mostra i muscoli e fa la faccia feroce in nome della grandezza degli USA e si scontra senza intermediazioni – abbassandosi, così, al loro livello – con i minacciosi ‘dittatorelli’ di Corea del nord e Venezuela, in guerra perenne – per ora di nervi, e poi? – con gli odiati capitalisti occidentali.
Ma ciò che ha scosso la prudenza dell’ex più amato da buona parte degli americani – e l’ha convinto a muovere il primo, timido, passo contro il ‘diavolo’ dai fulvi capelli – sono stati i gravi fatti di Charlottesville, in Arizona, la mancata sconfessione dei suprematisti bianchi e dei variopinti neo-nazisti d’accatto, che hanno sfacciatamente rispolverato tutto il ciarpame razzista e sudista, provocando quasi unanimemente sdegnate e allarmate reazioni.
Parole d’ordine, condite di violenza, che sembravano morte e sepolte e che – era prevedibile dopo il tipo di campagna elettorale urlata scelta da Trump – si sono riaffacciate come un brutto sogno questa estate e hanno gettato nell’incubo Obama. «Questo è troppo», sarebbe sbottato, decidendo di postare un tweet, subito diventato virale, che riprendeva una celebre, nobile, frase di Nelson Mandela contro l’‘apartheid’.
Un segnale incoraggiante per tutti coloro che, di recente, gli avevano rivolto accorati appelli a riscendere in campo in questa delicata fase di ‘emergenza democratica’ creata dal ‘trumpismo’: intellettuali e giornalisti, dirigenti e semplici militanti del suo partito e della sparuta sinistra ‘liberal’ e socialista, anche gruppi di conservatori ‘ortodossi’ fedeli ai valori dell’‘American way of life’, repubblicani tutti d’un pezzo, che rimpiangono la compostezza del ‘Great Old Party’.
Tutta gente che mal sopporta gli strappi dell’attuale ‘commander in chief’, eletto grazie al malessere di larghe fasce di popolazione – la ‘pancia’ del paese – in rivolta contro la politica dei ‘signori’ di Washington e l’invasiva burocrazia federale, refrattaria per paura e per rozzezza a qualsiasi impegno a favore del miglioramento delle condizioni di vita degli immigrati, dei neri, degli ispanici, eccitata dall’idea del muro tra Stati Uniti e Messico.
Mille sollecitazioni, ma – per ora – Barack non ha dato un seguito concreto alle speranze sbocciate dopo il suo intervento via web, né annunciato appuntamenti pubblici. Di certo è che sta riflettendo profondamente. Non vuole offrire un comodo bersaglio allo spregiudicato successore. Meglio aspettare che il paladino dei ‘paperoni’ americani – indebolito dal continuo rivoluzionamento del suo staff, dai siluramenti clamorosi, dalle improvvise defezioni di chi lo aveva sostenuto a gran voce nella sfida con Hillary, stremato dall’incalzare delle prove sul ‘Russiagate’, stressato dall’inesorabile – crescente – calo della sua popolarità e dalla spada di Damocle di un ‘impeachment’ – finisca per implodere e sia costretto a girare i tacchi in anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato.
Ma, al popolo dei democratici sconfitto a sorpresa dalle urne e ancora stordito, questo non basta: di fronte all’imbarazzante assenza di nuove figure di riferimento, molti continuano a incalzare Obama il carismatico, l’unico che potrebbe forse chiamare ‘alle armi’, e unire, i perdenti nel voto presidenziale, maggioranza nel paese.
Nelle prossime settimane Barack, il presidente del ‘yes, we can’, potrebbe inviare un altro segnale di riscossa, stavolta più forte, alla nazione. In milioni lo attendono. Lui è tentato, ma non ha deciso e non rompe il silenzio. Dopo, tuttavia, potrebbe essere troppo tardi. Il patrimonio di positività che – complessivamente, tra un successo e un fallimento – ha comunque trasmesso agli americani potrebbe pian piano disperdersi. Nel frattempo il settantunenne ’tycoon’ sarebbe capace di estrarre dal suo cilindro di prestigiatore qualche sorpresa irreparabile.