Rischia di piombare nel caos il Kenia, in tensione – come annichilito – da una campagna elettorale sfibrante, che dura ormai da un anno. Nel ‘paese delle vacanze al sole’, ex-colonia britannica, indipendente dal 1949, perno dell’Africa sudorientale, gli ‘esami’ non finiscono mai.
Il colpo di scena – evento storico, mai accaduto in uno stato del ‘continente nero’ – provocato da una clamorosa decisione della Corte Suprema, che ha bocciato «per gravi irregolarità» l’esito delle elezioni presidenziali dell’8 agosto: annullata la seconda investitura di Uhuru Kenyatta, preferito dalla classe imprenditoriale e dai ceti medio-alti delle grandi città in tumultuosa crescita economica, rampollo del mitico fondatore della nazione, che aveva battuto l’eterno oppositore Raila Odinga, al suo quarto tentativo, paladino delle fasce deboli della popolazione, dei diseredati delle periferie urbane e delle campagne, dei poveri della costa travolti dal ‘business’ internazionale.
Uno è il simbolo di una modernizzazione qualche volta spietata, l’altro è a capo di una eterogenea coalizione con venature vagamente socialiste, se non – in certi casi – marxiste. Due visioni politiche opposte, due potenti famiglie tradizionalmente avversarie, anche scontro di etnie diverse, quarantatre in un paese di cinquanta milioni di abitanti.
Tutto da rifare, entro sessanta giorni. Tra il giubilo di chi aveva protestato – sembrava invano – e la rabbia dei ‘vincitori’ disarcionati. Il processo che ha portato alle urne, e il computo dei voti, sarebbero stati inquinati dall’hackeraggio dei computer della commissione elettorale: il misterioso omicidio del super-tecnico che avrebbe dovuto sovrintendere alla macchina elettorale aveva già gettato ombre sul voto dell’8 agosto.
Il Kenya è disorientato, intontito, da questa sarabanda, ma – per ora – sta reagendo con senso di responsabilità. Venti giorni fa, invece – in occasione dell’incoronazione di Kenyatta – si erano registrati incidenti e violenze, ventiquattro i morti. Niente – si fa per dire – rispetto al massacro seguito alle presidenziali del 2007, anch’esse contestate: oltre mille morti e l’invio dei ‘caschi blu’ ONU.
Sia Kenyatta che Odinga, pur sottolineando di essere pronti alla nuova prova, hanno pronunciato parole di rispetto e di moderazione. Sanno bene che, se scoppiasse una guerra civile, a perdere – davanti al mondo – sarebbe il Kenya, con danni gravissimi. I due sfidanti hanno il dovere di dimostrare che quella del loro paese non è una finta, sbilenca, democrazia.