Potrà piacere o non piacere e infatti il non piacere è stato molto interessato – tutto sommato dovremmo essere tutti contenti se i nostri titoli di Stato possono essere venduti o acquistati con meno problemi – ma la promozione di Standard&Poor’s (S&P)n è un dato oggettivo e riflette una situazione economica senza dubbio migliore.
È figlia anche di una buona congiuntura internazionale ma il dato è incontrovertibile. Ma è figlia anche – in parte – delle riforme fatte nel corso degli ultimi anni. Non fosse altro perché hanno dato l’idea di un paese che finalmente usciva dall’immobilismo. Questo va riconosciuto a Matteo Renzi e sarebbe molto italiano non riconoscerlo.
Detto questo bisogna come al solito andare più in profondità e spiegare quelle che sono le indubbie fragilità. Intanto diciamo – con Luca Ricolfi – che appare quantomeno singolare che le agenzie di rating abbiano continuato ad essere così severe, nonostante il quadro economico fosse cambiato. Ma è altrettanto vero che riprendendo proprio l’indice dì vulnerabilità strutturale elaborato da Ricolfi, il miglioramento è dovuto solo e soltanto a fattori macroeconomici: Pil, inflazione e anche un certo recupero di competitività.
Se andiamo a guardare invece i dati di finanza pubblica le cose non sono affatto migliorate: il debito non è sceso checché ne dica Padoan e sul fronte della spesa pubblica i tagli sono stati più virtuali che reali. O meglio hanno riguardato un solo settore: il pubblico impiego che ha avuto un blocco contrattuale di circa 8 anni. Non poteva durare all’infinito e difatti ora c’è stato lo sblocco – doveroso – che però vanificherà l’unico risparmio di spesa effettuato. Torneremo su questo più avanti per gli effetti sulla stessa ripresa.
Il sostanziale immobilismo sul versante della finanza pubblica non potrà non avere effetti nei prossimi mesi, specie dopo che Draghi ha annunciato la riduzione soft del quantitative easing. Nel momento in cui dovesse rallentare la ripresa mondiale saremo di nuovo soggetti – con molta probabilità – alle speculazioni sui nostri titoli di Stato. È questo, ancora una volta, il problema non risolto al punto che già si parla di ennesima occasione perduta. Ma c’è anche un altro aspetto che va tenuto in considerazione e deve essere detto perché altrimenti si rischia di prendere in giro l’uomo della strada che a torto o a ragione non è che veda tutta questa ripresa.
L’aspetto è quello relativo al Pil. È vero, non siamo più in recessione e quest’anno toccheremo una crescita pari all’1,5 per cento: in cifra assoluta circa 24 miliardi in più. Ma tutto questo avviene dopo che con la crisi il Pil italiano – stando alle statistiche più attendibili – è crollato di almeno il 6 per cento. Che vuol dire questo? Che sono stati bruciati, a spanne, 100 miliardi di euro di ricchezza reale. Insomma gli italiani sono più poveri di 100 miliardi.
E allora se ne sono stati recuperati solo 24, ne mancano all’appello ben 76 e quindi non è che ciascuno di noi possa avvertire in maniera concreta la ripresa. Anzi. Sulle nostre tasche pesa ancora un “alleggerimento” di 76 miliardi di euro. Dicevamo prima del pubblico impiego, e può essere di esempio per molti settori di reddito: con il blocco di nove anni del contratto, gli statali hanno perso in media non meno di 8 mila euro complessivi. Non è che con un aumento di 85 euro, peraltro a regime solo in tre anni, si ricomincia come si suol dire a spendere. Diciamo che permane, mettiamola così, l’effetto cautela.
Questo schema lo si può tranquillamente estendere a tutto il resto. Ecco perché ben venga la promozione di Standard&Poor’s, ecco perché bisogna essere molto prudenti e soprattutto capire che la ripresa solo tra un po’ farà sentire i suoi effetti – speriamo – sulle tasche degli italiani. E dunque non è il caso di prenderli in giro o lasciarsi andare a facili ottimismi come fa l’ex premier. Il macigno del debito pubblico può tornare, in ogni momento, ad essere il nostro incubo.