Una volta l’autobus che non arriva mai, un’altra volta la circoscrizione comunale dove mi dicono che per rifare la carta d’identità devo aspettare un mese, poi l’Ama, che mi ha appena costretto a fare quasi tre ore di fila per sbrigare una pratica agli sportelli di via Capo d’Africa.
Appena torno a Roma da Lisbona, dove vivo gran parte dell’anno, mi tocca fare i conti con disorganizzazione, problemi e disservizi pubblici che trasformano ogni permanenza in un calvario. Allora scatta la rabbia e mi lascio andare: «Basta! Questa è una città di m…! Basta! Chiudo tutto e non torno più….». Ma, passata la furia, penso che un atteggiamento del genere è stupido e anche offensivo verso amici, parenti e conoscenti che continuano a vivere qui e a fare i conti con la realtà della capitale. No.
E così, adesso, ogni volta che salgo sull’aereo che sta per riportarmi in Italia mi impongo una specie di training autogeno: «Quando arrivi, non cominciare a fare subito lo stupido, a dire che non funziona niente, che è tutto uno schifo, e ti sembra di stare a Nairobi».
L’ho fatto anche l’altro giorno il training autogeno. E, appena atterrato a Ciampino, pensavo veramente che questa volta non avrei fatto il “razzista”. Ma, con tutta la buona volontà, la mattina dopo non c’è l’ho fatta. A rendere vani i miei buoni propositi è stato l’impatto con l’Ama di via Capo d’Africa, a due passi dal Colosseo. Se non vuoi andare nell’irraggiungibile via Mosca (zona Tormarancia) si tratta del solo sportello a Roma dove si possono sbrigare le pratiche relative alle utenze domestiche. Insomma, l’imposta della “monnezza”.
Avevo dato un’occhiata al sito e la cosa non era stata incoraggiante. Sotto il titolo “Gestione code” c’era questo avviso: «Si informa che, in caso di elevato afflusso di utenti, con code superiori alle 100 unità, al fine di assicurare il regolare servizio a tutti gli utenti in attesa, la distribuzione dei numeri allo sportello terminerà 30 minuti prima del normale orario di chiusura. In tali circostanze verrà, comunque, assicurato il servizio di appuntamenti on-line che ricadono in quell’arco temporale».
Rassegnato a perdere mezza giornata, esco di buon mattino non senza aver ripetuto il “training autogeno” fatto il giorno prima durante il viaggio in aereo. Per non perdere tempo, accelero il passo e salto perfino la sosta al bar per un caffè di cui sentivo bisogno. Al civico 23 di via Capo d’Africa, alle 9 e 30 c’è già un mucchio di gente. Mi precipito a prendere il biglietto. Numero 113. Conto a spanne le sedie occupate dagli utenti in attesa e non capisco. Ci saranno una cinquantina di persone. Perché ho il numero 113? Allora mi viene in mente l’esperienza fatta in circoscrizione per il rinnovo della carta d’identità, dove sul bigliettino uscito dal numeratore c’era scritto che mi dovevo presentare dopo un mese. Tutto questo perché le prenotazioni si potevano fare anche online, da casa, e non avevano previsto nemmeno uno sportello per chi andava direttamente in circoscrizione a prendersi il numero.
Ho pensato che forse nemmeno all’Ama avevano pensato che gli sportelli si possono separare. Una parte per chi ha preso l’appuntamento via Internet e una per chi si presenta per prendere il numero. Ma non ho avuto il tempo di approfondire, perché ho alzato gli occhi sul tabellone luminoso che lampeggiava e ho visto che stavano chiamando il numero 21. Ma c’era di peggio: su 16 sportelli ne risultavano in funzione solo 4.
Mi sono imposto la calma e sono andato da un tizio che stava accanto al distributore di biglietti per gestire la coda. Ne è venuto fuori uno scambio surreale: «Scusi, come mai ci sono solo quattro sportelli aperti?». «Non lo so, io sono della sicurezza, deve chiedere a quelli dell’Ama». Domanda: «Ma lei sta qui… Ce l’avrà una spiegazione!». Risposta: «Staranno lavorando dentro… Qualcuno sarà malato. Deve sentire l’Ama».
Allora torno verso la porta d’entrata da un altro tizio dietro una scrivania. Distribuisce moduli e dà informazioni. Lui deve essere dell’Ama. Appena mi degna d’uno sguardo, ripeto la mia domanda: «Scusi, ci sono 12 sportelli senza un addetto, come mai?». Risposta: «Non lo so…. chieda a qualche capoccione». Insisto: «Ma lei ce l’avrà pure una spiegazione!». Risponde con un’alzata di spalle e biascica: «Ce ne stanno un sacco in malattia».
Mi rassegno a un’attesa senza fine e dopo due ore e quaranta riesco finalmente a guadagnare il mio sportello e a risolvere il mio problema con un addetto peraltro gentile ed efficiente.
Passa una settimana. Sto ripartendo per Lisbona e leggo su un quotidiano romano una “velina” in cui l’attuale vertice Ama si vanta di aver ingaggiato una lotta senza quartiere contro «assenteismo e inidoneità che flagellano l’azienda». Quasi duemila “inidonei” totali o parziali su ottomila dipendenti. Ma questo fino all’anno scorso, perché «adesso la crescita esponenziale che ha portato in tre anni al raddoppio delle inidoneità si è fermata».
Grazie al «massiccio ricorso a uno screening di massa con il quale l’azienda confida di fronteggiare l’esercito degli imboscati». Vista la premessa uno immagina chissà che cosa. Invece, con un certo sprezzo del ridicolo la conclusione è che «siamo arrivati a 1928 inidonei contro i 1980 dell’anno scorso. Cinquantadue in meno….».
Mi viene da sorridere. Penso che la settimana prima mi è andata bene. Perché senza il duro intervento degli attuali vertici Ama, probabilmente agli sportelli di via Capo d’Africa avrei trovato solo tre sportelli aperti su sedici. Invece dei quattro grazie ai quali ho fatto appena due ore e quaranta di fila per una pratica di cinque minuti.