Della serie: avventura a palazzo di Giustizia. No: chiamarla avventura è un po’ troppo. Però è qualcosa insieme di indicativo e di istruttivo. Un giorno arriva una citazione, per una querela.
Chi di mestiere fa il giornalista, mette in conto che prima o poi qualcuno si rizeli, si senta offeso, e chieda a un giudice che l’offesa che crede di aver ricevuto sia “lavata” a suon di euro. Se di solito pecunia non olet, in questo caso, pecunia pulisce e lava che più bianco non si può. Ma non di questo si vuole parlare.
Cosa fa, comunque, il cittadino querelato e dal magistrato convocato? Disciplinato si presenta al piazzale Clodio di Roma all’ora fissata dalla citazione: ore 9. Il cittadino querelato è disciplinato, ma in fronte non ha scritto “giocondo”. Lo sa che si scrive ore 9, poi sarà chissà quando. Però, vedi mai, la volta che non sei puntuale lo sono loro, e dunque eccolo che vaga in un piazzale Clodio deserto in attesa che l’udienza abbia inizio.
Prende un caffè, legge svogliato un giornale, guarda l’orologio… Sono le 9,30 e non si vede nessuno. Ecco, arriva l’avvocato. Altro caffè per passare il tempo. La porta implacabilmente chiusa. Chiedere a qualcuno? Non c’è nessuno. L’avvocato, esperto, chiama qualcuno al telefono. «L’udienza è stata spostata in un’altra aula, nel palazzo accanto», dice dopo la telefonata.
Si va alla ricerca dell’Aula smarrita. Arrivati, anche questa è chiusa: cittadino querelato e avvocato davanti a quel portone blindato, come pitocchi. Passa uno che ha l’aria del commesso. Scuote la testa: «Qui di sicuro non c’è alcuna udienza, l’aula è chiusa da giorni per lavori». Altra telefonata, altro consulto. L’avvocato scuote la testa: «Dobbiamo tornare indietro, è nell’aula vicina a quella dov’eravamo…».
Vicina significa quasi esattamente sopra, quattro rami di scale. Quattro ascensori. Due rotti, gli altri due con una fila in attesa più lunga di quando c’è sciopero dei trasporti e attendi un taxi. Si va a piedi, c’è chi paga per questa ginnastica. Qui “offre” il palazzo di Giustizia.
Eccola, comunque, la famosa stanza dell’udienza. In un foglio attaccato alla porta il mio nome, sono l’ottavo in classifica. L’avvocato scuote la testa. «Qui salta l’udienza», dice. Che vuol dire salta? «Che riusciranno a farne tre, quattro. Le altre saranno rimandate». Rimandate? «Si, tanto non c’è fretta, sei a piede libero; prima vengono quelli in carcere…». Cioè, io posso andare?, chiede il cittadino querelato. «Ora mi informo, ma il nostro caso sarà sicuramente rimandato».
Si allontana, parlotta con qualcuno, ritorna: «Tutto fatto, se ne parla l’11 maggio del 2018». Sarò ascoltato fra sei mesi? Annuisce. Fra sei mesi potrò cercare di spiegare perché un signore mai visto e conosciuto mi accusa di averlo diffamato senza che io abbia neppure fatto il suo nome e neppure mi sia sognato di rimproverargli alcunché? L’avvocato annuisce ancora: «Se va bene l’11 maggio lei potrà dare la sua versione dei fatti. Ma forse si rimanderà ancora. Non si stupisca, accade ogni giorno».
E questo signore che mi fa perdere tutto questo tempo per niente, a parte quello che fa perdere alla Giustizia, ne dovrà rispondere, un giorno? «Beh, una volta definitivamente assolto lo si può forse chiamare in giudizio. Quanti anni vuole tirare avanti questa storia?».
Il cittadino querelato si guarda intorno. I corridoi sono sporchi, pieni di cartacce. Indefinibili personaggi si aggirano per chissà quale ragione, alcuni anche a solo guardarli ti corre un brivido lungo la schiena. In dei sottoscala sono accatastati vecchi tavoli, sedie rotte, fotocopiatrici che s’usavano ai tempi di Noè… «Avvocato», dice il cittadino querelato, «io qui non vorrei venirci né ora né mai…Non ho nulla di che temere, niente da rimproverarmi, eppure non vedo l’ora di uscire da qui. Mi manca l’aria… «Ecco, lei si è risposto da solo…». Arrivederci, avvocato, all’11 di maggio. E speriamo di chiuderla questa partita… L’avvocato fa un cenno vago: «Io qui ci vivo».
Si: sul diritto che viene negato; sulle leggi che si “interpretano” a seconda dell’imputato, su cavilli, pandette, azzeccagarbugli d’ogni tipo, ordine e grado, sono in tanti, che ci vivono.
Il cittadino querelato esce da piazzale Clodio. Respira a pieni polmoni, un indicibile senso di liberazione. L’11 maggio è lontano. Ripensa a quella vecchia lettera dove Benedetto Croce racconta a Giovanni Amendola di un guaio capitato a Giuseppe Prezzolini, querelato e costretto a difendersi per una diffamazione palesemente campata per aria. Era il 1911, e Croce conclude la lettera con una raccomandazione: stare, sempre e comunque, il più lontano possibile dalle aule di un tribunale. A cento e più anni di distanza. Quel consiglio non ha perso nulla della sua attualità, più che mai saggio e prezioso. Il cittadino querelato sorride amaro, ora, preda di pensieri e riflessioni che la buona educazione impedisce di riferire.