Man mano che il voto del 4 marzo si avvicina, la campagna elettorale assomiglia sempre più a una televendita. I leader (o presunti tali) sembrano piazzisti a caccia di clienti (elettori) da accalappiare con le offerte più mirabolanti. Ma in genere si tratta di roba scadente o merce avariata, destinata a finire nel secchio della spazzatura il giorno dopo le elezioni.
Il numero uno della Lega, Matteo Salvini, promette l’abolizione della legge Fornero, che sarà pure iniqua, ma fino ad oggi ha evitato la voragine dei conti con conseguente bancarotta dell’Inps e collasso del sistema pensionistico.
Pietro Grasso si è presentato all’assemblea programmatica di Liberi e uguali proponendo l’abolizione delle tasse universitarie per tutti gli studenti delle università pubbliche. Il costo? Un miliardo e 600 milioni, ha precisato subito Grasso, ma sarebbero soldi da mettere a carico della fiscalità generale. Ora, a parte l’anomalia d’un partito di sinistra che vuole abolire le tasse universitarie anche per i ricchi, il conto di Grasso non è esatto. I dati più recenti del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca si riferiscono all’anno accademico 2015/2016. Il costo in quell’anno delle tasse universitarie per gli studenti e le loro famiglie è stato di 2,8 miliardi di euro.
Matteo Renzi ha preferito puntare sul canone Rai, che da presidente del Consiglio aveva riformato appena due anni fa. Adesso propone di abolirlo definitivamente. E i costi? A suo dire non rappresenterebbero un problema: «Nella fase transitoria lo Stato dovrà supplire al canone trasferendo tra un miliardo e mezzo e due miliardi all’anno alla Rai. È la stessa cifra che chiedevamo ai cittadini con questa brutta tassa. Abbiamo già individuato i tagli di spesa necessari per questa operazione…». Di fronte a questa ipotesi il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha scritto un tweet molto critico, attaccando il segretario Pd e obiettando che «non si può promettere in campagna elettorale il contrario di quello che si è fatto al governo».
Ma il record spetta al candidato premier di Cinquestelle Luigi Di Maio che prende una posizione ambigua sull’obbligatorietà dei vaccini. E promette, una volta conquistato Palazzo Chigi, investimenti «in deficit» perché «il parametro del 3 per cento (imposto dall’Unione europea) non è un dogma e, superandolo, potremmo ridurre il debito pubblico». Detto questo, l’oscillante Di Maio, che una volta chiedeva insieme a tutto il M5S il referendum sull’euro, adesso sostiene che «non è il momento per uscire dalla moneta unica». Ma il capitolo Cinquestelle merita di essere approfondito. C’è la farsa delle parlamentarie, i candidati “scelti” dagli iscritti e presentati con grandi squilli di trombe a Pescara come esempio di “democrazia diretta”. In realtà i candidati del Movimento parteciperanno alla contesa elettorale solo dopo l’imprimatur del vertice, il via libera della coppia Casaleggio-Di Maio, a cui spetta l’ultima parola.
C’è poi la rottura con il fondatore Beppe Grillo che ha appena staccato il suo blog dalla piattaforma Rousseau di Casaleggio, che non parla, non partecipa alla campagna elettorale e l’altro giorno si è fatto vedere accanto a Di Maio per mettere fine alle polemiche sulla separazione, ma anche per far capire che a lui non va giù la linea moderata del candidato premier. Il problema è che su questa spaccatura i media italiani non hanno mai scavato accontentandosi delle dichiarazioni ufficiali (e quindi di comodo) dei vertici pentastellati.
Se il clima è questo, Silvio Berlusconi, l’inventore della telepolitica, adesso può presentarsi come un vecchio saggio, un moderato che chiede il voto per arginare incompetenti e populisti. L’ex premier promette una flat tax del 23 per cento, con un vago “impegno a scendere”, poi promette di fermare Di Maio e perfino di arginare l’alleato Salvini. Perché, a suo dire, la legge Fornero non si può abolire: «Alcune cose vanno mantenute». E con la vittoria di Forza Italia il numero uno della Lega non andrebbe oltre un ruolo di governo: «Sarebbe un buon ministro dell’Interno…».