Man mano che il D-day, il giorno del voto, si avvicina, Matteo Renzi abbassa l’asticella del risultato Dem. Da 25 per cento, che ai primi di gennaio considerava soddisfacente, in poco più di un mese è passato al 23. Nel primo caso, la percentuale del suo Pd sarebbe la stessa presa da Bersani nel 2013. Ma adesso, sondaggi alla mano, il segretario fa sapere che, vista la scissione di Liberi e Uguali, considererebbe il 23 per cento un buon risultato, sufficiente a mantenere il suo partito al centro della complessa partita politica che si aprirà subito dopo il voto.
Per un Renzi che si prepara a gestire una sconfitta annunciata da tutte le rilevazioni sulle intenzioni di voto, c’è un candidato Pd che si prepara a gestire una vittoria. Il candidato è Nicola Zingaretti, che corre per un secondo mandato alla presidenza della Regione Lazio alla guida di una coalizione di centrosinistra che comprende Liberi e Uguali. I sondaggi lo danno costantemente in vantaggio sul centrodestra diviso e sulla candidata Cinquestelle.
A questo punto, se l’isolazionista Renzi andasse male alle politiche scendendo sotto il fatidico 23 per cento e il federatore Zingaretti andasse bene alle regionali, la contrapposizione tra i due diventerebbe inevitabile. La minoranza interna, che non ha mai digerito il Pd “renzizzato” con gli ex democristiani in tutti i posti che contano, non aspetta altro.
Il ministro Orlando, dopo aver minacciato fuoco e fiamme in occasione della formazione delle candidature per il 4 marzo che hanno penalizzato la sua corrente, andrebbe subito alla resa dei conti con l’obiettivo di spingere Renzi il segretario alle dimissioni. E l’alternativa potrebbe essere proprio Nicola Zingaretti, il “federatore”, l’uomo che ha messo insieme una coalizione “larga” aperta agli scissionisti di Liberi e Uguali che, non a caso, si sono rifiutati di allearsi con il renziano sindaco di Bergamo Gori, candidato alla guida della Lombardia.
Agli occhi della minoranza Dem che viene dal vecchio Pci, Zingaretti sarebbe anche un segretario in grado di spostare il partito a sinistra, riportando in un Pd derenzizzato gli ex Pci-Pds-Ds che non nascondono di trovarsi a disagio nell’attuale convivenza forzata con la sinistra radicale di Boldrini, Fratoianni e soci.
Dal loro punto di vista, il governatore del Lazio avrebbe tutte le caratteristiche per ricomporre la diaspora Dem, perché viene dalla sinistra Pci, ma nel corso degli anni ha assunto sempre di più un profilo istituzionale tipico della tradizione di quella destra comunista che per anni ha governato le regioni rosse. Anche i suoi rapporti con Renzi, sempre tiepidi, non sono mai arrivati allo scontro aperto. Ma quando il segretario ha provato a fargli lo sgambetto spingendo la centrista Beatrice Lorenzin a candidarsi nel Lazio per sottrargli voti, non l’ha mandata giù. E così, subito dopo aver incassato il sostegno di Liberi e Uguali, ha escluso Civica Popolare (la lista della ministra) dalla sua coalizione anche se a livello nazionale sostiene il governo Gentiloni.
Anche se impegnato nella corsa per la rielezione alla guida del Lazio, Zingaretti adesso non nasconde le sue ambizioni nazionali. Venerdì 16 febbraio, intervistato da Radio Capital sul futuro del Pd, e sul suo ruolo alternativo a Renzi, ha detto: «A sinistra bisogna far prevalere le ragioni del noi. Non possiamo rischiare la solitudine. C’è questa voglia, lo percepisco facendo campagna elettorale, di ricostruire un centrosinistra più ampio…».