“Raffaele se ne è andato”. Quando sul telefonino è arrivato il messaggio mi si è gelato il sangue. Sono rimasto sbigottito, incredulo. Ho subito telefonato a Ida Molaro sperando in un improbabile errore. Invece, purtroppo, nessun errore: Raffaele Indolfi, il mio carissimo amico era morto. La sua compagna, collega di Mediaset, sconvolta dal dolore, è stata telegrafica: «Scusami, non riesco a parlare, mi viene da piangere!». Ha pianto, non è stata la sola a farlo.
Raffaele Indolfi, 74 anni, allegro, ironico, sempre sorridente con il sigaro toscano in bocca, non c’è più. Ci siamo sentiti l’ultima volta al telefono giovedì primo marzo. Ero tranquillo. Dall’ospedale Gemelli mi aveva rassicurato: «Sto meglio. Sono guarito. L’infezione non c’è più». Invece è morto sabato 3 marzo.Aveva dieci anni più di me. Tra il serio e il faceto lo chiamavo don Raffaele, in omaggio alle sue capacità e agli anni in più. Ci conoscevamo da giovani: avevamo una perfetta intesa sul senso della vita, sulla politica e sul giornalismo. Scriveva divinamente, in presa diretta, una prosa chiara ed elegante.
Era un fuoriclasse. Ci eravamo conosciuti negli anni Settanta, collaboravamo all’Avanti!, io da Roma e lui da Napoli. Collaboratori “volontari”, non retribuiti. Nei primi anni Ottanta io ero stato assunto al servizio sindacale del giornale e gli chiesi un articolo di “maniera” su Napoli perché eravamo a corto di notizie in redazione. Lui scrisse un bellissimo pezzo sul porto di Napoli. L’incipit era “Partono i bastimenti…”. Parlava della crisi del porto e dell’occupazione nella metropoli del Mezzogiorno partendo dal ricordo delle navi degli emigranti meridionali disperati che salpavano per l’America in cerca di fortuna.
L’umanità, la socialità, la libertà erano le sue bandiere. Passò dal Movimento studentesco al Psi perché «qui si respirava aria di libertà». Dall’Avanti! passò a Il Mattino. Politica, terrorismo, mafia, processi, cronaca nera. Prima da cronista per le pagine napoletane, poi come inviato di punta si occupò di tutto. Il lavoro di inviato era la sua passione. Era attento anche ai fatti di costume. Gli piaceva seguire anche l’elezione di Miss Italia. Ai miei dubbi rispondeva: «Belle guaglione! L’appuntamento è uno specchio per capire l’Italia!». Aveva il lavoro di giornalista nel sangue e nel cuore.
Non stava mai fermo, era sempre fuori dalla redazione di via Chiatamone. Con la sua vecchia e malandata Citroen Ds a gas girava per tutta Italia nei luoghi insanguinati dalle Brigate rosse o dalla mafia per vedere, indagare e scrivere. Aveva paura dell’aereo, così usava l’auto anche per lunghissimi percorsi, utilizzando l’alimentazione a gas per risparmiare. Lavoro e politica erano le sue grandi passioni. Era un socialista convinto. Era un sostenitore e un amico di Francesco De Martino, “u professore” di diritto romano sostituito nel 1976 da Bettino Craxi alla segreteria del psi. Era sconvolto e nauseato dalla politica di oggi dominata da vari populismi: «Chissi so’ pazzi».
Quando dieci anni fa andò in pensione dopo un piano di “tagli” decisi da Il Mattino, ci rimase male, malissimo. Voleva continuare a lavorare. Per un po’ andò abbastanza bene perché nel 2010, all’epoca del traballante governo Berlusconi, lo chiamavano dalla redazione: gli chiedevano quelle che io chiamavo le “interviste impossibili” ai cosiddetti “responsabili”, i parlamentari ai quali si rivolgeva l’allora presidente del Consiglio per assicurare una maggioranza all’esecutivo di centro-destra. Erano interviste impossibili per due motivi: gli chiedevano dopo le 20 di fare una intervista da scrivere ed impaginare entro le 22-22,30; doveva realizzare l’intervista per telefono (in modo da risparmiare) procurandosi velocemente i numeri dei “parlamentari responsabili”. Ma lui, bravo e tenace, ci riusciva superando tutte le difficoltà.
Obiettavo: «Chi te lo fa fare?!». Lui non perdeva mai la calma. Rispondeva serafico: «Mi piace!». Aggiungeva con un pizzico di autoironia surreale: «Quando vado a comprare il giornale, l’edicolante non mi dice più guardandomi negli occhi: ‘Rafaele era…. Ma mi dice: Rafaele è…’». Ma poi non lo chiamarono più per queste collaborazioni: crebbe il dispiacere e la delusione.
Lo invogliai a scrivere un libro sui tanti punti oscuri del rapimento di Guido De Martino, figlio di Francesco, da parte delle Br. Iniziò e scriverlo, mi mandò anche un capitolo da leggere, ma poi si fermò. Gli chiesi di scrivere degli articoli per Sfoglia Roma, il mio giornale online. Mi rispose sì. Mi mandò un bel pezzo un anno fa, quando uscì il giornale, su un micidiale sciopero dei tassisti nella capitale, ma poi si bloccò. Quando lo pungolavo a scrivere, rispondeva lanciando fuori campo la palla: «Beato a te…!». Cominciava a stare male, aveva dolori alla colonna vertebrale, faticava a stare in piedi. I funerali si svolgono oggi a Somma Vesuviana, il suo paese. Ogni tanto si lamentava al telefono: «Non chiami mai!». Io lo chiamavo, ma ora non potrò più farlo. Ciao don Raffaele.