I numeri, non ci sono i numeri. Così sia i grillini e sia i leghisti hanno bussato alla porta del Pd per sostenere un loro governo. Si cercano i “donatori di sangue”. Le elezioni politiche del 4 marzo hanno decretato vincitori i due partiti populisti, ma né Luigi Di Maio né Matteo Salvini hanno conquistato una maggioranza di seggi in Parlamento per governare. Il capo politico del M5S, rotta la passata linea grillina dell’autosufficienza, vuole guidare il nuovo governo cinquestelle ed intende “parlare con tutti”.
Forte del 32,6% dei voti ottenuti, punta prima di tutto ad un’intesa con il Pd sconfitto e derenzizzato: la votazione in Parlamento del Documento di economia e finanza (Def) «sarà l’occasione per trovare le convergenze con le altre forze politiche». La concorrenza con il Carroccio è forte. Ma se il M5S è diventato il primo partito italiano, Salvini può mettere sul tavolo il 37% dei voti conquistati dal centro-destra a trazione leghista, perché il Carroccio con il 17,3% dei consensi ha sorpassato di tre punti Forza Italia di Silvio Berlusconi. Il pressing di Salvini sui democratici traumatizzati dalla disfatta elettorale è stato deciso, forse un po’ minaccioso e breve: prima l’invito «a fornire una via d’uscita al Paese», poi il dietrofront perché «mai nella vita governerò con Renzi».
Tutto il Pd e la sinistra respingono un accordo con il centro-destra per i programmi inconciliabili, ma in molti danno il disco verde ad un’intesa con i cinquestelle. Gustavo Zagrebelsky, già animatore a sinistra della campagna per il no alla riforma costituzionale del governo Renzi, con simpatie verso “la rivolta” contro le élites che ha dato la vittoria ai grillini, è favorevole ad un’intesa tra il M5S e il Pd. L’ex presidente della Corte Costituzionale ha precisato al Fatto Quotidiano: «La direzione è quella. Ma ci vorranno tempi lunghi. Quindi avremo modo di riparlarne». Massimo D’Alema, esponente di Liberi e Uguali (un flop con il 3,3% dei voti), non rieletto parlamentare nel suo collegio del Salento, considera inevitabile il confronto tra il Pd e il M5S. Al Corriere della Sera ha sottolineato: «Lì c’è un pezzo del nostro mondo», cioè gli elettori delusi che hanno voltato le spalle al centro-sinistra.
È una brutta gatta da pelare per il Pd crollato al 18,7% dei voti dal 40,8% conquistato nelle elezioni europee del 2014 e dallo stesso 25% spuntato da Pier Luigi Bersani nel 2013. Renzi, dimessosi da segretario dopo la disfatta, dà però la linea politica: ha bocciato ogni tipo di alleanza sia con i cinquestelle sia con il centro-destra: «Il Pd non sarà mai il partito-stampella di un governo di forze anti-sistema». Ha assicurato: «Saremo all’opposizione». Il Pd non vuol fare il donatore di sangue e ancora una volta l’ha seguito: il 12 marzo la direzione democratica ha ricevuto le dimissioni, ha approvato la relazione di Maurizio Martina sulle stesse posizioni (appena 7 astensioni su 120 componenti) dell’ex segretario ed ex presidente del Consiglio. Il vice segretario del Pd con compiti di reggente ha definito “inequivocabile” la sconfitta del partito. Ha sfidato i vincitori: «A Lega e Cinquestelle dico: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità».
Nel Pd non tutti la pensano così. In molti guardano con interesse all’appello di Sergio Mattarella al “senso di responsabilità” verso l’Italia e all’abbandono degli “egoismi”. Michele Emiliano ha dato ragione al presidente della Repubblica e ha proposto di concordare un programma e di sostenere “dall’esterno” un governo a cinquestelle. Anche altri esponenti del Pd, per ora in silenzio, la penserebbero come il presidente della regione Puglia.
Davanti al Pd si presenta un pericoloso percorso ad ostacoli. Scartata l’ipotesi di sostenere un esecutivo grillino per passare all’opposizione, rischia un accordo M5S-Lega, oppure le elezioni politiche anticipate già nel prossimo autunno. Dal possibile “stallo” potrebbe spuntare anche un “governo del presidente” o istituzionale al quale la direzione del Pd ha dato il disco verde in nome dell’”interesse generale”, tuttavia Di Maio ha già respinto l’idea: «Noi non contempliamo nessuna ipotesi istituzionale e di governo di tutti». Il capo dei cinquestelle fa rullare i tamburi delle elezioni anticipate: «Tornare a votare? Questo non ci spaventa».
Ma siamo solo all’inizio di un accidentato percorso politico al buio. Il 23 marzo verranno eletti i presidenti della Camera e del Senato: se come propone Salvini saranno scelti uomini della Lega (Roberto Calderoli?, Giancarlo Giorgetti?) e del M5S (Emilio Carelli?, Danilo Toninelli?) saranno segnali per una intesa forse non solo tattica tra le due forze populiste.