Sono arrivate sul filo della scadenza le “offerte vincolanti” per l’acquisto di Alitalia. Una della tedesca Lufthansa, un’altra della low cost inglese EasyJet, in cordata con Air France e con il fondo Usa Cerberus, più una terza firmata dall’ungherese Wizzair Air.
Le proposte sono state consegnate al notaio il 10 aprile sera, quando sembrava ormai certo che i compratori sarebbero rimasti alla finestra ignorando il termine di presentazione fissato dalla procedura di vendita. Infatti, secondo alcune indiscrezioni che martedì mattina filtravano da Colonia (Lufthansa) e da Parigi (Air France) sarebbe stato impossibile presentare proposte con un governo scaduto e uno ancora in alto mare. Non a caso, Palazzo Chigi aveva già preparato il decreto per prolungare il commissariamento della compagnia aerea italiana che scadrà il 30 aprile prossimo.
È stata Easyjet a rompere la consegna del silenzio e a fare per prima la sua proposta. Spiegando poi in una nota che «il contenuto della manifestazione d’interesse» restava «riservato» e che allo stato delle cose non esiste alcuna «certezza che la transazione andrà avanti». Insomma, in assenza di una ristrutturazione dell’azienda l’offerta sarà ritirata.
Una posizione analoga a quella espressa più volte da Lufthansa che prima di avviare la trattativa col prossimo governo vuole vedere un’Alitalia completamente ridisegnata e con circa duemila dipendenti in meno.
La decisione improvvisa di mettere le carte in tavola può essere quindi letta come una mossa per stanare Lega e Cinquestelle. Infatti il loro trionfo alle ultime elezioni politiche ha complicato (e non poco) le trattative per la cessione della ex compagnia aerea di bandiera. Prima del voto, l’accordo con la tedesca Lufthansa sembrava in dirittura d’arrivo. Ma si stava prospettando anche la seconda offerta, quella della cordata costituita da Easyjet, Air France-Klm, Delta Airlines e dal fondo americano d’investimento Cerberus.
Adesso però c’è un grande scoglio politico da superare. Anche se con sfumature diverse, Salvini e Di Maio, prima del 4 marzo, si erano schierati per il ritorno del controllo pubblico. E non è un caso se dopo la loro vittoria si sono intensificati i rumors su un intervento della Cassa Depositi e Prestiti come partner finanziario. Chi spinge per questo ritorno dell’Alitalia sotto l’ombrello pubblico porta il fatto che, da quando è nelle mani della troika commissariale (Gubitosi, Laghi e Paleari), la società non brucia più tutti i soldi delle gestioni precedenti. Il prestito ponte di 900 milioni concesso dallo Stato per evitare il fallimento sarebbe ancora in cassaforte. Il condizionale è d’obbligo, perché la notizia è stata fornita durante un’audizione in Parlamento, ma i conti non sono mai stati resi pubblici.
Intanto il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, continua comunque a ripetere che è inutile farsi illusioni: «Alitalia da sola non può stare in piedi. Come dimostra il fatto che per sostenerla finora lo Stato ha già speso 8 miliardi di euro tra ripianamento delle perdite e fallimentari tentativi di rilancio».
A conferma della tesi di Calenda ecco i dati di un report appena elaborato dalla società Tra Consulting di cui è amministratore delegato Andrea Giuricin, professore di Economia dei trasporti all’università Bicocca. Dentro ci sono tutte le cifre sull’arretramento dell’Alitalia negli ultimi anni. Solo tra il 2014 e il 2017 ha perso ben 5 punti del mercato aereo italiano scendendo dal 20 al 15 per cento. Questo mentre il numero dei passeggeri nel nostro paese risulta triplicato rispetto a 20 anni fa. L’ex compagnia di bandiera conserva solo il primato nazionale dei voli domestici: 39 per cento contro il 36 di Ryanair. Ma è una vittoria di Pirro, perché quelle che rendono sono le rotte intercontinentali. E, allo stato delle cose, sul lungo raggio, Alitalia non ha i capitali, gli aerei e gli uomini per competere con i grandi concorrenti europei.