Brunetta e D’Alema una volta si sfidavano sulle leggi e sul governo alla Camera, ora la battaglia si è allargata alle bottiglie di vino. Vino e politica: due passioni alle volte lontane, alle volte vicine, vicinissime. Al Vinitaly, quasi uno accanto all’altro, hanno detto la loro Brunetta e D’Alema, due nomi noti della politica italiana, da qualche anno viticoltori. La sfida è stata sulle bontà delle rispettive bottiglie nell’importante Fiera di Verona, ognuno ha decantato i propri prodotti. I due vignaioli, distanti in politica, hanno parecchio in comune nel vino: tutti e due hanno delle tenute a gestione famigliare, entrambe puntano su bottiglie di qualità, su vitigni anche difficili e su tecniche enologiche innovative.
Renato Brunetta si è detto entusiasta con Il Corriere della Sera: «Mi sono indebitato fino ai capelli. Un atto di incoscienza, ma sono felice. Ho iniziato nel 2013, raggiungeremo il pareggio nel 2020». L’azienda del deputato di Forza Italia, bellicoso sostenitore di Silvio Berlusconi, è alle porte di Roma e il suo sconosciuto impegno è nato quasi per caso: «Sono da sempre un appassionato di vino. Sono andato ad abitare a Roma Sud, vicino al santuario del Divino Amore. Uno dei proprietari dell’azienda mi ha venduto un ettaro di terra. Subito dopo i suoi cugini mi hanno offerto 28 ettari abbandonati».
L’azienda, già proprietà di una famiglia patrizia romana, è curata dai famigliari e ha grandi progetti: «Ci lavorano i figli di mia moglie Titti, Dario e Serena Diana. Sono in produzione 12 dei 25 ettari a vigneto. Centomila bottiglie. Il rosso è un uvaggio di Montepulciano e Cabernet Sauvignon, affinato anche in botti di rovere usate per l’Amarone. Fra due anni sarà pronta una bollicina, assieme ad altri 5 vini». L’ex ministro e ex capogruppo alla Camera, mentre il nuovo governo resta un rebus, ha fatto solo un accenno alla politica: «Vendo vino e non mi occupo dei teatrini della politica come Di Maio e Salvini». Ha confessato: «Una passeggiata al tramonto, tra i filari, ripaga di tante fatiche e amarezze». Ha rispetto per D’Alema, doppio concorrente, in politica e nel vino: «Anche lui è uno serio e non ho dubbi sul livello del suo vino».
L’ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pds-Ds, ha un’azienda di 15 ettari, 6,5 coltivati a vigneto, tra Narni e Otricoli, in provincia di Terni. La sua passione per le vigne è venuta dopo quella per la vela: cedette la sua barca, Ikarus, e acquistò nel 2008 la tenuta in Umbria. Si estende tra le colline a circa 300 metri di altezza. Disse: questa terra «la voglio vivere». L’azienda è gestita da Massimo D’Alema e dalla moglie Linda, ed è intestata ai figli Giulia e Francesco. Con accanto la moglie ha confessato ad una tv privata presente al Vinitaly: «Abbiamo intrapreso questa attività con una certa dose di incoscienza…Si regge molto sull’attività di Linda». È un appassionato di vini di qualità, ha sottolineato le difficoltà di competere con Parigi: «I francesi hanno protetto i loro marchi di qualità, noi non sempre l’abbiamo fatto: fatichiamo a riconoscere le eccellenze. I nostri produttori dovrebbero restare più uniti».
Il vino per lui non è un semplice hobby. Ha un superconsulente: Riccardo Cotarella, “re” degli enologhi italiani, già uomo di fiducia di Silvio Berlusconi e della famiglia Moratti. I vitigni li ha scelti personalmente: Pinot nero, Cabernet Franc, Marselan, Tannat. Ha commentato soddisfatto: «Mai così a Sud dei vitigni così del Nord». I suoi vini più importanti sono tre rossi: Pinot Nero, Sfide e NarnOt (il nome è un omaggio a Narni e a Otricoli).
Vino e politica si sono intrecciati negli ultimi anni. Nel 2014 D’Alema sottolineò l’importanza delle cantine italiane, sembrò una metafora e un monito alla sinistra italiana allora al governo con Matteo Renzi: «Il vino è un pezzo importante della nostra civiltà, della nostra cultura, della nostra economia. Siamo tra i maggiori esportatori del mondo». Però sollevò un problema: «Siamo disuniti, non siamo mai riusciti a fare sistema, questo individualismo italiano è un ostacolo alla valorizzazione dei nostri prodotti».
La divisione, la frammentazione. È la malattia che ha disfatto il centro-sinistra e la sinistra italiana. Nelle elezioni politiche del 4 marzo il Pd è crollato al 18% dei voti; Liberi e Uguali, la lista di D’Alema, ha superato appena il 3%; Potere al popolo ha di poco varcato l’1%; Il Psi, alleato dei Verdi e dei prodiani, ha appena superato il mezzo punto percentuale. Un clamoroso flop. Lo stesso ex presidente del Consiglio non è stato rieletto nel suo tradizionale collegio pugliese.
Ha riconosciuto la sonora sconfitta. Ha annunciato al Corriere della Sera: «È stata l’ultima battaglia in prima linea…È finita una stagione, ora è il tempo di dedicarsi allo studio e alla formazione». Tempo fa, quando già non era più un protagonista, si definì un «pensionato di campagna». Ma una completa ritirata tra le viti sarà impossibile perché «la politica è una passione e da una passione non ci si può dimettere».
Brunetta e D’Alema sono due strani vignaioli: per metà politici e per metà contadini. Nelle elezioni entrambi sono stati battuti sonoramente dal populismo del M5S e della Lega, la batosta è stata riconosciuta ma ancora manca una strategia di rilancio correggendo i vecchi errori. Ricordano un po’ i ricchi commercianti della Repubblica di Venezia che, a fine carriera, lasciavano il mare e compravano tenute e ville nell’entroterra veneto.