«Ma tu chi rappresenti?». Il colonnello del Pd che partecipava al dibattito fissò sorpreso il militante che gli aveva fatto la domanda. La scena si è svolta qualche giorno fa in un circolo romano del partito durante un dibattito sull’ipotesi di alleanza con Cinquestelle per la formazione d’un governo. Pochi giorni prima che emergesse il rischio dell’aborto della legislatura.
Con la sua domanda senza risposta, l’iscritto al partito di Renzi aveva centrato il bersaglio. Era andato al cuore del problema che ha messo in crisi la politica italiana: la rappresentanza.
Ai tempi della Prima Repubblica, quando i partiti non erano ancora personali, le forze politiche rappresentavano pezzi di società, segmenti elettorali con i loro interessi e i loro problemi, interi settori. Allora i partiti non funzionavano come semplici comitati elettorali. C’erano le sezioni dove gli iscritti si riunivano e partecipavano alle decisioni interne. C’erano i congressi dove i leader si confrontavano – spesso duramente – con le rispettive mozioni e alla fine si votava per eleggere il segretario. Regole e democrazia interna non erano parole vuote. L’articolo 49 della Carta costituzionale (sul diritto dei cittadini di associarsi in partiti) trovava concreta applicazione. Certo, non erano tutte rose e fiori. Alla fine quel sistema degenerò nella partitocrazia.
Ma adesso i partiti sono governati da capi e capetti che rappresentano solo le fazioni interne in lotta per impossessarsi del simbolo. La democrazia interna non esiste più o quasi. Chi ha eletto Di Maio “capo politico” e “candidato premier” del primo partito italiano? Un pugno di iscritti che ha “votato” via Internet utilizzando la “piattaforma Rousseau”. E che cos’è la piattaforma Rousseau? È il cuore della cosiddetta “democrazia diretta”, il sistema operativo di Cinquestelle che gestisce tutto: iscrizioni, consultazioni, candidature. La piattaforma è anche la cassaforte del partito, per il grande flusso di donazioni che riceve dai militanti e per l’obolo che i parlamentari grillini devono versare mensilmente. Il problema è che Rousseau è un circolo privato sotto il pieno controllo di Davide Casaleggio che riveste contemporaneamente i ruoli di Presidente, Tesoriere a Amministratore unico.
E il Pd? Certo, a differenza del M5S, è ancora un partito dove ogni tanto si vota. Ma lo stato della democrazia interna è perfettamente rappresentata dalla situazione attuale. Con Matteo Renzi che dopo il tonfo del 4 marzo si è dimesso e fa il segretario ombra. Quello che alla vigilia d’una direzione del partito va in televisione e chiude la porta a un’eventuale alleanza di governo con Di Maio.
Inutile parlare di Berlusconi che il partito personale lo ha inventato costituendo Forza Italia, dove non si è mai votato, non si è mai tenuto un congresso e il gruppo dirigente è sempre stato fatto e disfatto da Silvio.
In una situazione del genere, i cittadini votano di pancia. Sulla base della realtà percepita e dell’incazzatura del momento. È un fenomeno che non riguarda solo l’Italia. Basti pensare alle ultime due elezioni inglesi. Al voto che ha portato Trump alla presidenza Usa. Al plebiscito che ha portato Macron all’Eliseo. Così la politica diventa liquida. I leader venuti dal nulla appaiono e scompaiono nel giro di pochi anni per essere sostituiti da altre meteore spesso populiste, sempre mediatiche.
Le nuove forze politiche sono il sintomo di una crisi profonda, quella della democrazia rappresentativa. Gli elettori stanno abbandonando i vecchi partiti “analogici” del XX secolo per sostituirli con quelli “digitali”. Tutti caratterizzati da un culto del leader che riflette il declino delle strutture intermedie: sezioni, associazioni, sindacati. Una volta tutti sapevano chi rappresentava l’onorevole Peppino Avolio, sindacalista, parlamentare socialista e leader della Confcoltivatori. Ma oggi – tanto per fare un esempio – uno come il colonnello Pd Matteo Orfini chi rappresenta?