Il muro contro muro sulla nomina del ministro dell’Economia ha dimostrato una volta per tutte a Lega e Cinquestelle che Sergio Mattarella non intende fare il fantasma del Quirinale. Una sorta di notaio chiamato a ratificare le decisioni di Salvini e Di Maio.
Come ha fatto sapere appena è scoppiato il caso Savona, il capo dello Stato «non accetta diktat». Le sue prerogative sono fissate dalla Costituzione. Come recita l’articolo 92 della Costituzione, è lui che «nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Punto.
Chi pensava che l’inquilino del Quirinale potesse accettare d’interpretare un ruolo puramente formale, è servito.
Come aveva scritto Sfogliaroma il 3 aprile scorso «Mattarella non è Cossiga e non rischia di trasformarsi in un ‘picconatore’». Ma come l’ex “sardomuto” viene dalla sinistra democristiana ed è un politico di vecchia scuola. Quindi, costretto a scendere in campo per dirigere la partita del governo, sarà arbitro assoluto. Infatti, prima del fischio d’inizio, in vista dell’avvio delle consultazioni, qualche quirinalista aveva anticipato sui giornali l’orientamento del presidente della Repubblica, che avrebbe chiesto al nuovo governo «di rispettare le compatibilità e gli impegni assunti dall’Italia in ambito europeo». E così è stato.
Dopo una “pausa di riflessione”, densa si suspense, Mattarella ha poi dato l’incarico al premier indicato da Lega e Cinquestelle, ma dopo un colloquio di due ore ha disegnato il perimetro del nuovo governo. Non è un caso se il professor Conte, nella sua prima dichiarazione ai giornalisti, ha dovuto esordire con quel «sono consapevole della necessità di confermare la collocazione europea e internazionale dell’Italia» che gli era stato scritto dal Quirinale. Il premier incaricato è entrato nello studio di Mattarella con un foglio, quello voluto da Cinquestelle in cui si autoproclamava «avvocato difensore del popolo italiano», ed è uscito con due fogli. Nel secondo, Mattarella gli imponeva la conferma della «collocazione europea» dell’Italia anche con un governo gialloverde.
Ma è evidente che la dichiarazione d’intenti di Conte non poteva bastare al Quirinale, visto che il nome fatto dalla Lega per il ministero dell’Economia era e restava quello di Paolo Savona, notoriamente euroscettico e anti-tedesco, quindi indigeribile, per la cancelliera Merkel, per i vertici europei e – non ultimo – per il numero uno della Bce Mario Draghi. Quindi è arrivato il veto su Savona.
Il problema è che il leader della Lega, dopo aver ingoiato il rospo del preambolo europeista imposto, ha deciso di andare allo scontro con il Quirinale proprio sul ministro dell’Economia. Al grido di «O Savona o morte», Salvini ha detto che avrebbe rifiutato qualsiasi trattativa su quel nome, e ha sparato una serie di dichiarazioni contro il Quirinale, la Germania e Bruxelles. A questo punto, era chiaro che stava accarezzando l’idea di far saltare il banco. D’altra parte, per come si erano messe le cose, sulla carta, era l’unico ad avere tutto da guadagnare da un voto anticipato.
Il ritorno alle urne gli avrebbe consentito di centrare in un sol colpo tre obiettivi: evitare d’imbarcarsi sul fragile vascello di un governo che sarebbe stato costretto a navigare tra mille scogli, liberarsi di un alleato come Di Maio e mandare in pensione Silvio Berlusconi facendo il pieno dei voti di centrodestra.