Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede assicura di essere quotidianamente impegnato per garantire una “certezza della pena”. In che modo? Il condannato dovrebbe scontare la sua pena per intero in carcere, senza deroga (le pene
alternative, insomma, non si prendono in considerazione). Tuttavia, concede, che si opererà perché vi sia “la rieducazione della pena…”. Cosa sia la “rieducazione della pena” è qualcosa di oscuro, che si fatica a comprendere. Forse il signor ministro intende riferirsi all’articolo 27 della Costituzione. Conviene leggerselo tutto, l’articolo: così si comprende l’“armonia” e lo spirito del legislatore, la grande saggezza dei nostri benemeriti Padri Costituenti:
1) La responsabilità penale è personale.
2) L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
3) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
4) Non è ammessa pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di Guerra.
Conviene tralasciare i commi uno, due e quattro; anche su quelli tanto si potrebbe dire, ma non è questa l’occasione. Meglio concentrarsi sul terzo. Il signor ministro benissimo farebbe a focalizzare la sua attenzione, il suo impegno sulla prima parte del comma: quello relativo ai “trattamenti contrari”: facilmente scoprirebbe che lo Stato, il suo stesso ministero sono tecnicamente fuorilegge: violano la Costituzione.
Ecco, si parta da qui. Da qui abbia “cura” di concentrare la sua attenzione, il suo impegno. Poi si arriva a quello che si può considerare una sorta di lapsus: non è la “rieducazione della pena” che va perseguita, piuttosto quella del condannato; la pena a questo deve servire.
Nel momento in cui lo si scrive, ecco che si viene assaliti da un dubbio: forse il signor ministro proprio questo, voleva intendere: è la pena che va rieducata. Sarebbe, in questo caso, affermazione significativa, di indubbio valore: il riconoscimento che in Italia le pene sono “maleducate”, che vanno qualche modo condotte a “educazione’. Si attendono chiarimenti.
Nel frattempo, è comunque utile rinfrescare la memoria con i “fondamentali”. Proficua la rilettura (o lettura) di uno smilzo libretto del 1764 di Cesare Beccaria: Dei delitti e delle pene.
Beccaria in sostanza per prima cosa si preoccupa di distinguere il reato (danno alla società e quindi all’ “utilità commune”, che si esprime come idea nata dal rapporto fra le persone); e il peccato (che l’uomo compie nei confronti di Dio, che quindi può essere giudicabile e condannabile solo dallo stesso “Essere perfetto e creatore”, confinato per questo in un ambito puramente metafisico).
L’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene dunque alla coscienza morale del singolo: imperscrutabile, e che si presta a una quantità di arbitrari fraintendimenti. Nel concreto, a noi, quello che deve interessare è l’esito di un’azione, non la premessa o l’intenzione.
Si arriva così alla pena, e alla sua utilità: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi».
Signor ministro, rileggiamolo bene insieme questo passaggio: «Pubblica, pronta, necessaria, la minima possibile… proporzionata».
Significa che, se si vuole, a rendere efficace la pena non è tanto la sua intensità, quanto la certezza e la prontezza che alla medesima si garantisce e assicura: «Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa…». La “prontezza”, in particolare: il ritardo fra delitto e somministrazione della pena non produce altro che disgiungere sempre più questa relazione di causa-effetto. Nell’immaginario collettivo l’immediatezza della pena serve a rinforzare il senso del giusto castigo; mentre il ritardare la pena farebbe percepire il castigo come una forma di spettacolo.
Beccaria torna utile anche in tema di prescrizione dei reati e lunghezza dei processi. La loro estensione, e la possibilità che un reato cada in prescrizione, vanno rapportati alla gravità dello stesso. Nel caso di un reato minore Beccaria sostiene che il tempo può curare la cattiva inclinazione del reo, piuttosto che lasciarlo vivere in una condizione di attesa della pena, qualora venisse comprovato colpevole. Infine, non meno importante, il compito del legislatore (depositario della volontà popolare e nazionale) è concepire leggi in forma chiara, che non siano interpretabili. Al magistrato compete “solo” verificare il rispetto della legge.
È quello che non si sono mai stancati di ricordarci nei loro scritti un fine giurista come Piero Calamandrei e un pre ”vedente” scrittore come Leonardo Sciascia; e nella sua riformatrice azione politica Marco Pannella.
A questi fondamentali precetti si è conformata tutta la moderna legislazione di paesi liberali e democratici (Stati Uniti d’America per primi: i padri fondatori leggono in originale il libro di Beccaria, e ad esso si ispirano). Non certo per un caso, nel 1766 il libro di Beccaria viene incluso tra quelli che il Papa-re considera “proibiti”.
Signor ministro della Giustizia, allora: si comincia da qui?