Sono un terrorista mediatico. Anche se a mia insaputa, lo sono da una vita, dal lontano 1980, cioè da quando ottenni l’iscrizione all’ordine dei giornalisti per diventare professionista. A rivelarmi la verità, a mettermi di fronte a questa terribile realtà è stato il vicepremier Luigi Di Maio.
È successo tutto all’improvviso, quando ho letto la sottile analisi dei nostri mezzi d’informazione fatta dal capo politico di Cinquestelle e ho sentito con le mie orecchie il suo durissimo atto d’accusa sul “terrorismo mediatico”.
Già, perché in che altro modo possiamo definire la pretesa della stampa italiana di spacciare per notizie le fake news su deficit, spread, decreto dignità e ponte Morandi?
Scrivere che portare il deficit di bilancio al 2,4 per cento farà saltare il bilancio dello Stato mettendo a rischio il Paese è terrorismo bello e buono. Titolare sulla salita dello spread alimentata dalle dichiarazioni di un esponente politico italiano contro l’Europa e i mercati è un attacco al governo gialloverde. Sostenere che il decreto dignità provocherà un calo dell’occupazione è un atto di guerra. Osservare che il decreto Genova così com’è darà vita a una serie di battaglie legali che alla fine bloccheranno la ricostruzione del ponte è un falso bello e buono.
Davanti al jaccuse di Di Maio, anch’io sono stato costretto a guardarmi allo specchio. E alla fine ho capito che nei miei quasi 40 anni da giornalista professionista ho fatto solo del terrorismo. Cercando di scoprire, come altri (pochi) colleghi, che cosa si nascondeva dietro le verità ufficiali dei tanti governi di cui mi sono occupato in centinaia di articoli. E pretendendo, addirittura, di fare domande vere nel corso delle interviste a sottosegretari, ministri e leader politici di ogni colore. Non avevo capito che stavo sbagliando tutto. Che aveva ragione il grande Gigi Marzullo quando, seduto di fronte all’intervistato di turno nello studio della sua trasmissione Rai, lo esortava dolcemente a farsi una domanda e a darsi una risposta.
Marzullo aveva anticipato i tempi. E oggi Di Maio va all’attacco dell’informazione italiana, per il “terrorismo mediatico” con cui quotidianamente «cerca di colpire il governo gialloverde e soprattutto il M5S». La verità è che «tutti i giornali di partito» hanno dichiarato guerra alla Manovra del Popolo.
Ma se la guerra è guerra e allora ecco che il vicepremier sta pensando al contrattacco. Come ha detto recentemente prima di visitare la Fiera del Levante «le società partecipate (dallo Stato) dovrebbero smetterla di fare tutta questa pubblicità sui giornali». I giornali dei «prenditori editori che ogni giorno inquinano il dibattito pubblico».
A dare man forte a Di Maio ha subito provveduto il sottosegretario all’editoria, il pentastellato Vito Crimi, anticipando «la fine della pacchia», ossia lo stop ai fondi pubblici per la stampa e nuovi tetti alla pubblicità televisiva.
Perfettamente in linea con il fondatore di Cinquestelle Beppe Grillo che nel 2013, dopo essersi scagliato contro la «stampa vergognosa» avvertiva: «La prima cosa che faremo (quando andremo al governo) sarà quella di tagliare le sovvenzioni ai giornali».