Troppo piccola e, insieme, troppo grande. Troppo piccola per poter competere con le grandi compagnie aeree tipo Lufthansa e troppo grande per fare concorrenza a Ryanair e alle low cost. Come da anni spiegano gli analisti del settore, è questa la “maledizione” di Alitalia, che adesso il vicepremier Luigi Di Maio vuole riportare sotto il controllo pubblico. Senza aver mai spiegato con quale progetto intende affrontare questo problema strutturale che negli anni ha trasformato la nostra ex compagnia di bandiera in una macchina mangiasoldi. Soldi pubblici, quindi denaro dei contribuenti. Sul Sole 24 Ore Gianni Dragoni ha calcolato che dal 1974 ad oggi l’Alitalia è costata 8 miliardi e 595 milioni. Cioè «143 euro per ogni italiano, compresi i neonati».
Azienda di Stato per 42 anni, nel 2007 l’Alitalia fallisce. Affidata a un commissario liquidatore per essere privatizzata. Nel 2008 il governo Berlusconi la “regala” ai “patrioti” di Cai guidati dall’ex “capitano coraggioso” dalemiano Roberto Colaninno. L’azienda viene consegnata ai nuovi azionisti pulita da tutti i debiti (pagati dallo Stato) e alleggerita di settemila dipendenti messi per sette anni in cassa integrazione speciale a carico del sistema previdenziale. In totale, l’operazione Cai costerà all’erario oltre quattro miliardi di euro.
Ma gli imprenditori della “cordata patriottica” riescono a perdere più di 600 mila euro al giorno, e così, dopo quattro anni di bilanci in profondo rosso il capitale è bruciato e loro gettano la spugna. Per consentire alla compagnia di continuare a volare, lo Stato interviene di nuovo con un prestito ponte e con 75 milioni di euro iniettati da Poste Italiane che pochi anni dopo ne avrebbe bruciati altri 75.
Nel 2014 Alitalia sembra finalmente fuori dalla tempesta. Gli arabi di Etihad hanno acquistato il 49 per cento della società e a gennaio del 2015 si siedono ai comandi. Con i loro petrodollari la nostra ex compagnia di bandiera non dovrebbe più avere problemi. Invece sarà un altro flop. Dopo appena due anni anche l’emiro di Abu Dhabi dichiara forfait e la società fallisce un’altra volta. Il 2 maggio 2017 vengono nominati tre commissari straordinari e lo Stato interviene di nuovo con due prestiti per un totale di 900 milioni di euro.
Il resto è storia recente. I commissari lavorano bene, riescono a contenere i costi e a chiudere la gara per la vendita della compagnia che comunque continua a perdere soldi. La spunta il colosso tedesco Lufthansa con una offerta vincolante che prevede tagli di personale e una ristrutturazione per trasformare Alitalia in una affiliata regionale per il Sud Europa. A questo punto la decisione spetta alla politica. Ma siamo a fine 2017 e a marzo 2018 ci saranno le elezioni politiche. Il governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni non se la sente firmare il contratto e proroga il commissariamento fino a ottobre 2018. Toccherà al nuovo governo di accettare o rifiutare l’accordo con i tedeschi.
Ma il 5 marzo di quest’anno, appena si aprono le urne e si profila il cappotto gialloverde è già chiaro che Alitalia non passerà a Lufthansa. D’altra parte, Di Maio e Salvini prima del voto non avevano mai nascosto di essere contrari al passaggio della compagnia aerea italiana in mani straniere. Quindi nessuna meraviglia se adesso, in vista della fine del commissariamento, il vicepremier Di Maio abbia annunciato il prossimo ritorno della maggioranza dell’Alitalia in mani pubbliche. Con l’intervento delle Ferrovie dello Stato, e sotto la regia della Cdp (Cassa depositi e prestiti) dopo la trasformazione in azioni dei 900 milioni di “prestito ponte” concesso dal governo Gentiloni.
Ma le anticipazioni del vicepremier hanno suscitato l’ira del ministro Tria. Che da responsabile dell’Economia e garante dei nostri conti pubblici con Bruxelles sa perfettamente che le cose non sono così semplici come le descrive Di Maio. Primo, perché il bilancio dello Stato non consente di bruciare altri miliardi nell’ex compagnia di bandiera. Secondo, perché sul “prestito ponte” è in corso un’indagine dell’Unione europea che vieta gli aiuti di Stato. Terzo, perché l’Alitalia troppo piccola e insieme troppo grande com’è adesso continuerà inesorabilmente a divorare i soldi dei contribuenti. La sola cosa certa è che la classe politica degli ultimi 30 anni ha fatto molti pasticci con Alitalia. Una specie di “maledizione” che adesso si sta abbattendo su Di Maio e sul governo gialloverde.