Strano. La prima mossa importante dell’era Manley è stata una dismissione, la cessione di una brillante azienda italiana. L’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles ha venduto ai giapponesi la Magneti Marelli: il gioiello del gruppo italo-americano specializzato in accessori e componenti per auto passa al 100% alla nipponica Calsonic Kansey per circa 6,2 miliardi di euro.
La notizia per molti aspetti è una sorpresa. Sergio Marchionne aveva più volte parlato di uno “scorporo” della Marelli per creare valore, come del resto è avvenuto per la Ferrari e per la Cnh Industrial (macchine agricole, macchine movimento a terra, autocarri ed autobus). Infatti sia per la Ferrari sia per la Cnh Industrial è stata una scelta vincente sia sul piano finanziario (le quotazioni azionarie sono andate bene) sia sul piano produttivo ed occupazionale. Invece per la Marelli non c’è stato, come si prevedeva, lo scorporo ma l’acquisto da parte della società nata l’anno scorso da uno spin-off della casa automobilistica Nissan ed ora di proprietà del fondo Usa Kkr.
La Marelli è una realtà produttiva molto importante. Ha fabbriche di alta qualità tecnologica in tutto il mondo. In Italia l’azienda dà lavoro a circa 10 mila dipendenti distribuiti in 20 stabilimenti, molti contigui agli impianti Fiat-Chrysler. Solo poche case automobilistiche possono contare su un supporto industriale così prezioso.
Perché la vendita? Mike Manley il 22 ottobre ha motivato l’annuncio della decisione con delle lunghe perifrasi: «L’operazione riconosce il pieno valore strategico di Magneti Marelli», consente all’azienda «di esprimere tutto il suo potenziale nella prossima fase del suo sviluppo». Ma la vendita è soprattutto «un altro importante passo nel nostro continuo focus sulla creazione di valore». Ed è questa la principale ragione della vendita: la “creazione di valore”, il denaro: Fca incasserà oltre 6 miliardi di euro dallo smobilizzo.
La somma è rilevante. La perdita della Marelli è forte, almeno speriamo che l’incasso della cessione venga destinato agli investimenti, nei nuovi modelli di auto ibride, elettriche e a guida autonoma. Ne ha bisogno il gruppo nato oltre 100 anni fa a Torino ed ora con sede legale in Olanda, domicilio fiscale nel Regno Unito, interessi produttivi prevalenti negli Stati Uniti d’America. Ne hanno bisogno soprattutto le fabbriche italiane di Fca. Il piano industriale 2018-2022 illustrato da Sergio Marchionne lo scorso primo giugno, poco prima di morire il 25 luglio, stabiliva grandi programmi nell’innovazione tecnologica, produttiva e nella difesa dell’occupazione soprattutto in Italia.
Ma i nuovi modelli di vetture da fabbricare nel Belpaese ancora non si vedono mentre crescono gli ammortizzatori sociali per evitare gli esuberi tra i lavoratori. Marchionne, l’artefice della fusione della Fiat con la Chrysler (impianti in Europa, Nord e Sud America e Asia) autore del salvataggio delle due case automobilistiche sull’orlo del fallimento, per l’Italia aveva fatto una promessa su una scommessa di riconversione produttiva: la piena occupazione negli stabilimenti producendo solo veicoli di qualità Alfa Romeo, Maserati e Jeep (con maggiori margini di profitto) e mettendo da parte quelli commerciali Fiat. Gradualmente sono andate fuori produzione le vetture di massa della Fiat (la Punto è stato l’ultimo modello a dire addio alla catena di montaggio nei primi giorni di agosto a Melfi) ma ancora non sono arrivati i nuovi 9 modelli premium in grado di garantire l’occupazione. Speriamo che i proventi della vendita della Marelli aiutino a mantenere gli impegni di Marchionne, confermati da John Elkann, il capo della famiglia Agnelli proprietaria di Fca.
Marchionne era molto soddisfatto il 13 ottobre 2014, alla prima seduta di quotazione di Fiat Chrysler Automobiles a Wall Street. Al centro del discorso c’era il miracolo della fusione dei due gruppi automobilistici: «Siamo morti e risorti più volte». Ora sta rischiando di morire il ramo italiano di Fca, la culla della Fiat.