Deficit del 2,4%: da “intoccabile” a “tagliabile”. Alla fine il deficit al 2,4% è stato messo nel cassetto e sostituito da un più modesto 2,04%. Il vento populista diventa venticello. Di Maio e Salvini in un lungo vertice notturno con Conte a Palazzo Chigi hanno trovato l’intesa sul disavanzo ridotto di circa quattro decimi di punto. Il segretario della Lega e ministro dell’Interno ha annunciato: «Abbiamo trovato l’accordo su tutto». Il capo politico del M5S, ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico è soddisfatto: «Siamo compatti, è il giorno più importante dal 4 marzo», cioè il giorno del successo alle elezioni politiche.
Per tre mesi Di Maio e Salvini hanno condotto una battaglia furente contro la commissione europea, difendendo il deficit pubblico fissato al 2,4% del Pil nel 2019. Da settembre hanno tuonato: «Dal 2,4% non arretriamo di un millimetro». I due vice presidenti del Consiglio hanno ripetuto all’unisono fino a poche settimane fa: tiriamo diritto sul deficit al 2,4% perché serve a finanziare il reddito di cittadinanza e “la quota 100” per andare in pensione anticipata, le due principali promesse del “governo del cambiamento”.
Il bersaglio era sempre Bruxelles, trattata con toni sprezzanti. Luigi Di Maio proclamava: «Le minacce della Ue non ci fermano» e «smentisco ogni tipo di ripensamento sul 2,4%». Matteo Salvini più ruvidamente rilanciava: «Se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso». Si è sfiorata la rottura con la Ue che aveva bocciato la manovra economica italiana per deficit-debito pubblico eccessivo.
Il vento populista poi è diventato un venticello: il deficit del 2,4%, da intoccabile è stato ridotto al 2,04%. Mercoledì 12 dicembre, dopo estenuanti trattative, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha proposto il taglio del disavanzo al presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker. La notte tra domenica 16 e lunedì 17 dicembre è giunto alla fine l’accordo tra Di Maio e Salvini sulle spese da diminuire e le entrate da potenziare. Ora la parola passa di nuovo alla commissione europea per l’ok finale, poi il governo M5S-Lega cambierà al Senato la legge di Bilancio 2019 con un maxiemendamento. Così l’Italia può scongiurare la procedura d’infrazione sull’euro brandita da Bruxelles.
A far scattare la retromarcia sono state le tante brutte notizie sul fronte economico collezionate dal governo grillo-leghista: lo spread schizzato in alto fino a quasi 340 punti, la frana del 25% della Borsa di Milano. Poi in rapida sequenza: il calo del Pil, dell’occupazione, dei consumi e della produzione industriale. Il rischio di passare dalla ripresa alla recessione.
Il 2,04% non è una novità. Giovanni Tria già alcuni mesi fa aveva proposto a Bruxelles una riduzione del deficit dal 2,4% al 2%, ma arrivò l’altolà sia dal capo politico del M5S e sia dal segretario della Lega. Da qui il forte disagio del ministro dell’Economia, il tecnico Tria, già da luglio. Si parlava di sue possibili dimissioni da lui però smentite: è «pura fantasia».
Questo percorso ad ostacoli non è stato indolore per i conti pubblici italiani. Gli investitori internazionali hanno venduto i titoli del debito pubblico del nostro paese. Lo spread, raddoppiato rispetto all’ultima fase del governo Gentiloni, saliva stabilmente sopra la pericolosa soglia di 300 punti, causando un’impennata dei tassi d’interesse pagati dal Tesoro per vendere Btp, Bot, Cct. Qualcuno ventilava perfino una disordinata uscita dell’Italia dall’euro.
C’è stata una emorragia di miliardi di euro. Infine è arrivato il sospiro di sollievo per il deficit ridotto dal 2,4% al 2,04%, una mediazione giunta all’ultimo minuto con un taglio di circa 8 miliardi di euro dal bilancio italiano. E lo spread è finalmente sceso sotto quota 300. Di Maio e Salvini, nonostante la “sforbiciata” sui fondi, garantiscono comunque la realizzazione dei “contenuti”: gli italiani avranno il reddito di cittadinanza, “quota 100” e la flat tax ridotta al 15% per i lavoratori a partita Iva con ricavi fino a 65 mila euro l’anno.
Di Maio e Salvini hanno messo da parte le critiche e i sarcasmi contro “i numerini” e “le letterine” della commissione europea. Pragmaticamente hanno preso atto della realtà e hanno operato una marcia indietro azionando una cortina fumogena, dando a Conte “la piena fiducia” a trattare con Bruxelles.
A molti militanti ed elettori grillini e leghisti è rimasto l’amaro in bocca: avevano sognato di veder realizzate le mirabolanti e salatissime promesse della campagna elettorale per le politiche del 4 marzo. Le promesse, invece, sono state ridimensionate per le risorse diminuite.
È molto facile fare promesse mirabolanti, è molto più difficile mantenerle.
Ora Di Maio e Salvini, ma soprattutto il primo (sotto scopa per i negativi sondaggi elettorali del M5S), si dovranno rimboccare le maniche per le prossime elezioni regionali e comunali. Dovranno correre ai ripari per le elezioni europee di maggio. Dovranno dare una risposta alle cocenti delusioni dei loro elettori.