C’è chi accetta la vita da pensionato e chi no. Può accadere anche a chi ha calcato il palcoscenico della politica in ruoli di primo piano per moltissimi anni. È successo a Walter Veltroni, primo segretario del Pd nel 2007, ex segretario dei Ds, ex vice presidente del Consiglio, ex ministro, già sindaco di Roma, quotato candidato al Quirinale nel 2015.
Veltroni, 63 anni, chiamato con pungente ironia Uòlter dai comici Ficarra e Picone, non vuole fare il pensionato, ha cambiato mestiere: da politico a giornalista. Ha intervistato Ivano Fossati, 67 anni, famoso musicista. Uòlter, intervistato in mille occasioni diverse da giornali e televisioni, è diventato intervistatore: ha firmato sul Corriere della Sera una conversazione con il cantautore Fossati. Apprezza molto il musicista impegnato a sinistra: «È musica colta e popolare». È andato a trovare l’autore di La canzone popolare nella sua casa a Genova. Già il titolo dell’intervista dice tutto: «Ivano Fossati: ‘L’addio alle scene? Esibirmi in pubblico era diventato fatica e routine’».
Forse anche per Veltroni la politica era diventata solo “fatica” e solo “routine”. Di qui l’addio annunciato alla fine del 2012 e realizzato negli ultimi sei anni. Così, dopo essersi seduto negli scranni di Montecitorio dal 1987 al 2013, con una breve interruzione a Palazzo Senatorio del Campidoglio come sindaco di una giunta di centro-sinistra, ha cambiato lavoro. È passato dall’altra parte della barricata: fa il giornalista. Certo non è nuovo del mestiere, già quando era un dirigente del Pci-Pds-Ds fu nominato direttore de l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Nel 2013, dopo aver lasciato l’attività politica, non è andato in Africa a «svolgere un ruolo sociale» come aveva più volte annunciato. Non è andato in Africa nemmeno negli anni seguenti. Ma non ha fatto neppure il pensionato in Italia. Anzi, si è cimentato su più mestieri: si è impegnato come giornalista, regista e scrittore.
Però non ha staccato del tutto la spina con la politica. Partecipò alla campagna elettorale del Pd per le elezioni politiche del 4 marzo 2018: «Do una mano nei momenti difficili». Alla domanda di un giornalista su un suo possibile ritorno rispose in modo sibillino: «In politica non si torna, si sta».
Dopo la disastrosa sconfitta elettorale di Matteo Renzi e del centro-sinistra notò a caldo con Il Corriere della Sera: «È abbastanza incredibile la rapidità con cui si è passati sopra la più grande sconfitta della sinistra nella storia del dopoguerra». Lanciò critiche dure ma pacate all’insegna della politica-sentimento: «L’errore drammatico è stato togliere alla nostra comunità le emozioni e la memoria». Accusò di aver cancellato dall’orizzonte degli elettori progressisti «l’idea di partecipare a qualcosa di grande» e di non aver soddisfatto «il desiderio di futuro».
Ha criticato in maniera indiretta Renzi e si è mobilitato per cercare una alternativa. Di fronte al secco no dell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd alla proposta di un governo con il M5S, Veltroni si è differenziato: a certe condizioni il Pd farebbe bene «a discuterne». Tuttavia ha seccamente escluso un suo ritorno in pista come segretario dei democratici: «La mia passione politica si può esercitare senza potere». Così ha continuato a fare il giornalista tenendo però d’occhio la politica.
Praticamente da un anno il Partito democratico è senza guida: prima si è dimesso da segretario Matteo Renzi e poi Maurizio Martina. Il partito fondato da Veltroni e teorizzato da Romano Prodi è impegnato da mesi in un lungo ed estenuante congresso che si concluderà solo il 3 marzo con le elezioni primarie del segretario.
I candidati più quotati a vincere la corsa, dopo il ritiro di Marco Minniti, sono Maurizio Martina e il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti. Ma tutto si svolge tra poco entusiasmo, mancanza di idee e di progetti credibili per cambiare e rendere più giusta la società italiana. Così il Pd, non ritenuto una alternativa credibile di governo né una opposizione incisiva, è dato ad appena il 17% dei voti nei sondaggi elettorali mentre i partiti populisti a Palazzo Chigi vanno a gonfie vele. Il M5S, pur dato in discesa, è intorno al 25% dei voti e la Lega addirittura quasi al 36%. Le elezioni europee di maggio, se non cambierà nulla, saranno una sfida tra i due colleghi di governo: il leghista Salvini e il grillino Di Maio.