Theresa May cerca la ricetta magica per evitare il “divorzio” dall’Europa senza accordo, il cosiddetto “No Deal”. Ma il 29 marzo, la data dell’uscita dalla Ue, si avvicina velocemente e ancora non si vede una soluzione.
Gli allarmi si moltiplicano. Secondo la Banca d’Inghilterra l’addio senza un’intesa sarebbe una sciagura per tutti, ma soprattutto per la Gran Bretagna: perderebbe ben l’8% della sua ricchezza nazionale (Pil) in un solo anno.
Theresa May sta cercando di negoziare un “piano B” con l’Unione Europea, dopo l’accordo raggiunto a novembre ma sonoramente bocciato dalla Camera dei Comuni il 15 gennaio. La cancelliera tedesca Angela Merkel le ha teso la mano: «Abbiamo ancora tempo per trattare ma ora è la premier britannica che deve fare una proposta». L’impresa non è facile. Il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker non si è mostrato molto disponibile a rinegoziare l’accordo firmato a novembre e così la maggior parte dei 27 paesi dell’Unione europea.
La premier britannica, subito dopo la bocciatura dell’intesa con Bruxelles, ha riottenuto la fiducia a Westminster (è stata respinta la mozione di sfiducia dei laburisti), ma deve fare i conti con le divisioni del suo partito (una parte dei deputati conservatori ha votato contro l’accordo) e del suo paese.
Il 51% degli elettori votò per l’uscita dalla Ue nel referendum del 23 giugno 2016, tuttavia le differenze sono grandi: la Brexit ha avuto la maggioranza in Inghilterra (ma non a Londra) e nel Galles, invece è stata battuta in Scozia e in Irlanda del Nord. Anche i partiti sono spaccati: i conservatori in maggioranza sono favorevoli al “divorzio” (una parte è anche per una separazione “dura”), gran parte dei laburisti sono invece pro Ue mentre i liberaldemocratici sono nettamente europeisti. Il Partito nazionalista scozzese (Snp), indipendentisti di centro-sinistra, è europeista contrario alla Brexit mentre il Partito unionista democratico dell’Irlanda del Nord alleato della May, è favorevole a una separazione “dolce” e non traumatica.
Jeremy Corbyn ha confermato la linea dura contro la May: dialogherà solo quando la premier escluderà «chiaramente il No Deal». Il leader laburista ha ribadito le scelte del congresso di Liverpool: intesa per una “separazione dolce” che non danneggi i lavoratori e i ceti popolari, accantonamento dell’ipotesi di un secondo referendum, mobilitazione per arrivare alle elezioni politiche anticipate.
Domina il caos e perdura lo stallo. La May dice no a un secondo referendum sulla Ue e al rinvio della data del 29 marzo come giorno del divorzio. Lavora al suo “piano B” per raggiungere un nuovo accordo: «È l’unica soluzione contro il No Deal». Vuole rivedere la precedente intesa. Il punto dolente sono soprattutto i confini tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda. L’obiettivo e di scongiurare le barriere doganali, senza però ricadere nel mercato unico europeo. I protestanti dell’Irlanda del Nord non vogliono uno status diverso da quello del Regno Unito perché hanno paura di essere assorbiti da Dublino. La tensione è altissima: solo da pochi anni è finita la sanguinosa guerra civile tra cattolici e protestanti irlandesi.
La regina Elisabetta II sembra molto preoccupata. La sovrana, 92 anni di età e quasi 67 di regno, non è mai intervenuta su questioni politiche ma, pur non citando la Brexit, ha voluto far sentire la sua voce sollecitando in generale a «rispettare i punti di vista diversi, venirsi incontro per individuare il terreno comune». L’intervento è stato visto dai giornali britannici come un invito all’unità rivolto al Parlamento, mettendo da parte il feroce scontro.
Lo slogan della May, per ora, resta: «Il mio piano o la catastrofe». Il 29 marzo si avvicina e la paura di una separazione senza accordo, secondo alcuni, potrebbe far passare il suo “piano B”. Ma finora lo slogan «il mio piano o la catastrofe» non ha portato fortuna alla premier di Sua maestà.