Perù, una delle perle dell’America Latina. È uno sconfinato paese nel quale la natura e la storia sono riusciti a convogliare deserti, laghi, vulcani, la Foresta Amazzonica, le altissime Ande, i resti archeologici di antiche civiltà misteriose. Il paese degli Incas, il principale impero del Sud America prima della conquista degli spagnoli, ha sempre affascinato ed affascina per le sue meraviglie e le sue contraddizioni. La popolazione discendente dagli Incas convive con quelle di radici europee, asiatiche ed africane. Claudio Magrini, 32 anni, giovane consulente di un’azienda informatica, ha scritto un diario di viaggio delle due settimane trascorse nel sud del Perù. Un viaggio affrontato con pochi mezzi e grandissimo entusiasmo.
Subito via da Lima verso Paracas, una cittadina a sud, a tre ore dalla capitale peruviana. Siamo saliti su un autobus modernissimo, attrezzato per i lunghi percorsi, con i biglietti presi da Roma. I peruviani si spostano molto con i pullman: costano poco e i treni sono molto cari in quanto gestiti da compagnie estere americane e cilene.
Subito c’è stata una bella sorpresa. Sul bus per andare a Paracas faccio amicizia con una ragazza bionda, tedesca di Dusseldorf. Ho il nome sul telefonino: si chiama Emma, la sera stessa abbiamo preso un aperitivo insieme.
Degrado e bellezza convivono. Paracas è poco più di un villaggio di pescatori: ha una sola strada asfaltata. Il lungomare è bello, così l’albergo nel quale abbiamo alloggiato ma l’esterno è tutta un’altra storia: desolazione, degrado, caos. Il frastuono del traffico di auto e taxi è assordante. Tutti suonano il clacson continuamente per qualsiasi motivo. In realtà è una precauzione: quasi nessuno rispetta il codice della strada, si suona il clacson per evidenziare la presenza della macchina in modo da evitare incidenti.
L’alzataccia a Paracas la ricordo bene: ci siamo alzati alle 4 del mattino e alle 5 siamo partiti in barca per visitare le isole Ballestas, distanti circa 10 chilometri dalla costa. Davanti gli occhi si è materializzato uno spettacolo da sogno: foche, leoni marini, pinguini. Sterminati stormi di uccelli in cielo con i relativi inconvenienti: ci hanno fatto comprare dei cappelli per evitare spiacevoli bombardamenti.
Lo spettacolo è magnifico ma l’Oceano Pacifico non è tanto pacifico. Può essere pericoloso, può causare massacri. Il rischio di tsunami è fortissimo, così le vie di Paracas, così come quelle di tutte le cittadine sulla costa, sono tappezzate di cartelli sul pericolo di gigantesche onde assassine e sulle vie più sicure in caso di disastro.
Per fortuna noi non siamo incappati in tsunami, ma in spettacoli meravigliosi. Dalla barca, immersa in un mare blu mozzafiato, abbiamo visto un enorme struttura geoglifica, “El Candelabro”, del diametro di 120 metri scolpito su una collina a picco sull’Oceano Pacifico. Si tratta di qualcosa che somiglia alle misteriose “linee” di Nazca, una gigantesca rete di disegni visibile soltanto dall’alto, a bordo di un aereo.
Migliaia di foche sono sulla spiaggia: emettono versi fortissimi, provocano un frastuono assordante. Sembra un gigantesco lamento delle anime finite nel Purgatorio.
Bellezza terribile si sovrappone a bellezza ammaliante. La Riserva nazionale di Paracas è tutto questo. La Riserva è un’area naturale protetta molto estesa, è stata dichiarata zona protetta nel 1975 allo scopo di tutelare la flora e la fauna. Il paesaggio che si apre davanti è lunare: su un promontorio si snoda un quasi deserto di pietra gialla, marrone e rossa. È un paesaggio meraviglioso: sei circondato dal vuoto, sei solo tu e la natura. Da una parte c’è l’oceano verde smeraldo e di un blu profondo con i fenicotteri, le foche, i leoni marini. Dall’altra parte c’è la costa rossa, una distesa sterminata, desertica, di pietra rossa.
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