Da quando è arrivato al governo, Matteo Salvini è in campagna elettorale permanente. Invasivo e invadente, deborda in tutte le edizioni di tutti i telegiornali e sulle prime pagine di tutti i quotidiani, con dichiarazioni, interviste e attacchi.
Le sue dirette Facebook non si contano, la sua attività sui social è incessante. A tutte le ore del giorno e della notte c’è sempre un Salvini show. La sovraesposizione del ministro dell’Interno è enorme e i sondaggi continuano a premiarlo. Nelle intenzioni di voto degli italiani la Lega è il primo partito con oltre il 30 per cento. Il pieno alle prossime europee sembra quindi a portata di mano, eppure il rischio c’è e non è piccolo.
La sovraesposizione mediatica d’un leader prima o poi si trasforma in un boomerang. E in tempi di “politica liquida” la resa dei conti con l’elettorato può arrivare con estrema rapidità. Gli esempi recenti nel mondo sono infiniti. Ma per trovare conferme a questa “regola” non c’è bisogno di andare troppo lontano. Basta ricordare gli italianissimi casi di Mario Monti e di Matteo Renzi.
Chi si ricorda più del professor Mario Monti, il “salvatore del paese” catapultato a Palazzo Chigi dall’allora presidente Napolitano alla fine del 2011? Chi si ricorda del fatto che l’economista della Bocconi formò un governo che in Parlamento fu praticamente votato all’unanimità con la fiducia più alta mai registrata nella storia repubblicana? Arrivato alla guida del Paese in un momento drammatico, Monti poteva fare qualsiasi cosa. Promise agli italiani di salvarli dal baratro economico e nel 2013, contro il parere di Napolitano, decise di presentarsi alle elezioni con un partito tutto suo, Scelta civica, che però raccolse solo il 9,1 per cento. Due anni dopo il professore abbandonò la sua creatura e uscì di scena.
E Matteo Renzi? Conquistato il Pd, diede il via alla rottamazione della vecchia classe dirigente postcomunista, nel 2014 conquistò il 41 per cento alle elezioni europee. Ma poi scelse la strada della comunicazione: una valanga di dichiarazioni e annunci che finirono per indebolirlo, fino al referendum costituzionale del 2016. Solo contro tutti, lo perse e fu la sua fine.
Adesso è la volta di Salvini, ancora più sovraesposto del Renzi dei tempi d’oro, il leader leghista punta a sbancare alle europee di maggio. E per raggiungere questo obiettivo, che gli consentirebbe di mettere Di Maio nell’angolo e di assumere la guida del centrodestra rendendosi autosufficiente da Berlusconi, non va troppo per il sottile.
Non è un caso se nell’ultima polemica (anche con Cinquestelle) sulla chiusura dei porti anche ai profughi di una nuova guerra in Libia ha gonfiato il petto e ha dichiarato: «Mi attacchino finché vogliono… i porti rimangono chiusi…. Piaccia o no è competenza del ministro dell’Interno…».
Ma il Salvini contro tutti non tiene conto dei pericoli che una simile sovraesposizione mediatica comporta. Primo, la crisi di fiducia appena gli elettori percepiranno che i fatti non seguono i proclami e che la realtà è diversa dalla fiction. Già, perché con una guerra civile in Libia (o altrove) nemmeno Salvini potrebbe infischiarsene del diritto internazionale e negare gli sbarchi. Secondo, perché un grande successo elettorale alle prossime europee non cambierebbe i numeri del Parlamento italiano. Le politiche del 4 marzo 2018 hanno portato alla Camera 125 deputati leghisti, ben 95 meno di quelli del M5S. E al Senato la situazione è anche peggiore, perché qui il gruppo leghista è solo terzo, dopo Cinquestelle e dopo Forza Italia.