Curioso, e inquietante paese, un paese che non riesce a trovare unione neppure quando si tratta di rendere omaggio, e alimentare memoria di due eroi come sono stati e sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e quando si dice Falcone e Borsellino si comprendono, s’intende, anche la moglie Francesca Morvillo e gli agenti delle scorte che sono stati uccisi con loro: Rocco Dicillo, Antonio Montanari, Vito Schifani, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Fabio Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina).
Curioso e inquietante paese, un paese che a 27 anni da quelle due stragi non riesce a organizzare una cerimonia dove le polemiche e le strumentalizzazioni restino, per una volta, “fuori”, e si onori questi martiri con il silenzio, il ricordo, il doveroso rispetto.
Curioso e inquietante paese, un paese dove il partito del ministro dell’Interno, stampi un manifesto dove in modo sfacciato e plateale si utilizza la ricorrenza della strage per fini elettorali; e il ministro se ne dissocia blandamente.
Curioso e inquietante paese, un paese dove la maggiore cerimonia in onore di Falcone viene disertata dal sindaco di Palermo e dal presidente della Regione Sicilia, in polemica con il ministro dell’Interno.
Curioso e inquietante paese, un paese dove i familiari di due vittime, Falcone e Morvillo, si dividono, si lanciano accuse; e Giovanni e Francesca, per anni uniti nella vita, e morti insieme, “riposano” in tombe diverse.
Curioso e inquietante paese, un paese che non sa o comunque non riesce mai a fare i conti con se stesso. Sì, certo: Falcone i mafiosi li capisce bene. La sua formazione umana e di magistrato lo mette in condizione di comprendere quali trasformazioni segnano l’universo mafioso nella fase della “modernizzazione”, la mafia “urbana” che gestisce i traffici illeciti legati al traffico della droga, e sostituisce la mafia “rurale”. Per questo ucciderlo non è solo l’irreparabile interruzione di una vita umana; è cancellare una memoria storica, un “sapere”, un saper capire: l’interpretazione di un gesto, di una parola, di un silenzio.
Ma non era solo la Cosa Nostra il nemico di Falcone. Ricordate Ilda Bocassini la “rossa”? Si commemora a Palazzo di Giustizia di Milano Falcone, lei prende la parola. Un intervento duro, spigoloso, come il personaggio. «Non tutti», sibila, «hanno il diritto di piangerlo». E guarda fisso negli occhi i suoi colleghi. Di fatto li accusa, come contemporaneamente fa Francesco Misiani a Roma.
Un passo indietro: 21 giugno 1989: sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza, si scopre una borsa imbottita di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Tra i pochissimi, anche chi ordina di mettere quel borsone. Un attentato, della Cosa Nostra, ma non solo: concepito, dice Falcone, da «menti raffinatissime». Frase suggestiva, che spesso sarà ripetuta a sproposito. Ma detta da Falcone assume significato univoco, e chiarissimo. Quella mattina sulla spiaggia dell’Addaura sembra che a fronteggiarsi ci siano due gruppi: uno a terra, composto da mafiosi dell’Acquasanta e, si dice, da agenti dei servizi segreti.
L’altro gruppo è in mare: un canotto con un paio di finti sommozzatori che hanno il compito di neutralizzare l’attentato che si prepara, e impedire che il tritolo sia fatto esplodere. I due sub hanno un nome: Antonino Agostino, ucciso non si è mai saputo da chi, assieme alla moglie; ed Emanuele Piazza, strangolato e il corpo fatto sparire nell’acido l’anno dopo.
Sia Agostino che Piazza erano specializzati nella caccia ai mafiosi latitanti. A lungo si insinuerà che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità. Ricordiamolo. L’insinuazione non la fanno Totò Riina, Bernardo Provenzano, gli altri macellai della Cosa Nostra; gira nei salotti bene di Palermo, nei “santuari” dei poteri reali e concreti.
Tommaso Buscetta, quando decide di “pentirsi” e raccontare le sue verità, a Falcone dice: «Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai».
Cosa Nostra aspetta. Aspetta e uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà vice-dirigente della squadra mobile… Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono trasferiti all’Asinara. Lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato non ha pudore a presentare il conto: 415mila 800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno.
Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsa esperienza di mafia. A favore di Meli, e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti eletti nelle liste di Magistratura Democratica. Quasi nessuno lo ricorda.
Meli smantella il pool, teorizza che tutti si devono occupare di tutto. Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino si ribella, rilascia interviste, lancia accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, deve difendersi dinanzi al CSM.
Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al CSM, i suoi colleghi lo bocciano. È la stagione delle lettere anonime del “corvo”: scrive che gestisce in modo discutibile e disinvolto il “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine si raggiunge quando il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e altri leader della Rete, lo accusano di insabbiare la verità sui delitti eccellenti. È costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di andare a dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di “diserzione”. Di esser venduto a Pannella, perché con lui condivide la necessità della responsabilità civile dei magistrati, della separazione delle carriere, del superamento del vincolo dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Infine la procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato; il CSM lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova. È procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che ha firmato un documento, con altre decine di colleghi; la procura antimafia viene indicata come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del CSM designato dall’allora PCI, firma sull’Unità un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.
Questa, nella sua essenza, la storia. Conferma che si vive in un curioso e inquietante paese. E sommessamente ti dici: quanto ci manca Leonardo Sciascia, quel suo I professionisti dell’antimafia così attuale, pre/veggente, così capace di vedere e capire in anticipo quello che accade, è accaduto…