Si allarga a macchia d’olio (ma più che olio si tratta di liquame e letame), lo scandalo del Consiglio Superiore della Magistratura, e si fatica a seguirne, giorno dopo giorno, ora dopo ora, le sconcertanti, inquietanti evoluzioni.
Nessuno è nato nel paese di Alice, e non sorprendono le commistioni tra magistratura e politica; cinicamente si può anche dire che è nell’ordine delle cose: è “normale” che i politici vogliano crearsi sponde nella magistratura, ed è “normale” che il sindacato dei magistrati faccia altrettanto. Non è una buona ragione per accettare che un ex magistrato e capo di una corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati, entrato in politica continui di fatto a fare il capo corrente; non è una buona ragione per accettare che un politico indagato da una Procura, treschi clandestinamente per nominare il capo della Procura che lo vede indagato (e magari anche il capo della Procura che si deve occupare degli eventuali reati commessi dai magistrati della Procura che gli sta a cuore); non è una buona ragione per ascoltare senza batter ciglio un ex presidente del Consiglio difendere con arroganza e sufficienza il suo fedelissimo, perché così fan tutti.
Al di là di come la vicenda evolverà, val la pena di ricordare che queste “pratiche” non solo sono “antiche”, ma soprattutto erano evitabili. Lo sarebbero ancora, se solo si facesse tesoro dell’esperienza passata; cosa che difficilmente accadrà.
Anno 1987: Partito Radicale, Partito Socialista e Partito Liberale presentano la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, l’abrogazione della Commissione inquirente e del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura. Gli altri partiti, e la magistratura associata, vedono queste richieste come fumo negli occhi, e mettono in essere ogni sorta di iniziativa per bloccare la consultazione popolare.
La prima strategia adottata contro i referendum è lo scioglimento anticipato delle Camere per lo stallo che si è prodotto nei rapporti tra Democrazia Cristiana e socialisti: protagonista è Ciriaco De Mita: gioca la carta delle elezioni anticipate per rompere la convergenza tra partiti laici e in particolare tra Bettino Craxi e Marco Pannella. Le elezioni politiche sono fissate per metà giugno e i referendum per l’8 novembre.
Dopo le elezioni, di fronte all’appuntamento referendario, DC e PCI, inizialmente ostili ai quesiti, si schierano a favore del «sì». Il repentino cambio di rotta deriva dalle implicazioni politiche che può provocare l’eventuale sconfitta dello schieramento del «no» imperniato sull’asse DC-PCI, in contrapposizione a uno schieramento laico-progressista formato da radicali e socialisti.
Parte della mina referendaria viene comunque disinnescata dalla Corte Costituzionale: dichiara inammissibile il quesito sul sistema elettorale del CSM.
I referendum abrogativi rimasti si concludono con una netta affermazione dei «sì». Se la Corte Costituzionale, con il suo afflato corporativo e di arroccamento, non avesse impedito agli italiani di pronunciarsi anche sul quesito relativo alle elezioni del componenti del CSM, quel regolamento sarebbe stato certamente abrogato a furor di popolo; e chissà, forse, con un altro regolamento non si sarebbero raccolti i frutti velenosi di questi giorni.