Penombra, ombra, notte. Luce e sole alla fine. 5 è il numero perfetto, il titolo del film è ermetico. È svelato dal protagonista Peppino Lo Cicero (Toni Servillo) a pellicola inoltrata: due gambe, due braccia una faccia fa 5. Era il motto misterioso di un cugino poliziotto ucciso senza pietà perché aveva rifiutato di levare dal suo balcone i piccioni che davano fastidio a un boss. Aveva condito il no con 5 è il numero perfetto.
Napoli 1972. Killer il padre, killer il figlio. Più esattamente: killer camorrista il padre, killer camorrista il figlio. Peppino Lo Cicero si muove tra la penombra e l’ombra delle notti nei vicoli del centro di Napoli, quasi sempre insieme a Totò il macellaio (Carlo Buccirosso), il suo inseparabile amico guappo, e Rita (Valeria Golino), l’antica fiamma della giovinezza riemersa dopo la morte della moglie. 5 è il numero perfetto, regia di Igort (nome d’arte di Igor Tuveri), distribuzione 01 Distribution, produzione Propaganda Italia e Jean Vigo Italia e Rai Cinema, ha un ritmo incalzante, drammatico, surreale. Volti, pistole, pioggia, spari vengono stampati sullo schermo del cinema con impressionante efficacia mentre il sonoro della pioggia e delle pallottole entra nelle orecchie degli spettatori.
Peppino Lo Cicero-Toni Servillo è calmo, riflessivo, determinato. Domina la scena come ne La grande bellezza e Loro, due suoi altri grandi film. Cammina imperturbabile sotto interminabili temporali, sempre con un cappello a larghe tese, impermeabile, giacca e cravatta, mai un ombrello. Ricorda la premonizione di una prostituta tunisina sul suo futuro da viaggiatore. Scuote la testa deformata da un grande, vistoso naso finto: «Sono qui da quarant’anni e non mi sono mai mosso da Napoli!».
È un vecchio e freddo assassino di professione, ha sterminato anche la famiglia della moglie poi portata incredibilmente all’altare. È in pensione e passa il testimone all’adorato figlio Nino, un ragazzo non molto soddisfatto di quel lavoro, di quella «dura fatica». Per il compleanno gli regala una magnifica rivoltella: una Colt Cobra 38 Special. Poco dopo Nino è ucciso da un camorrista che avrebbe dovuto essere la sua vittima. Perde la vita e la Colt.
Il padre per il dolore perde la testa ma non la lucidità. Organizza la vendetta. Armato di due pistole automatiche, aiutato da Totò il macellaio e da Rita, fa impallidire la potenza di fuoco di un commando della Delta Force americana. Compie una strage dopo l’altra: uccide decine di camorristi in assalti, agguati e scontri a fuoco. Spara e uccide (assieme a Totò e a Rita) per strada, nei palazzi dei boss, nel suo rifugio. Uccide anche i due boss che dominano la piazza. Si esalta: «Pum, pum, pum! Sento l’odore della polvere da sparo!». Gli piace l’odore del sangue e l’emancipazione professionale: non è più un “esecutore”, un gregario ma adesso decide lui chi assassinare.
Poi arriva l’imprevisto. Come l’Innominato nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni si ferma: non uccide il killer del figlio. Si blocca, si sente cambiato e lo lascia libero. Commenta: «Ho sbagliato tutto!». Il graziato, poco riconoscente, torna con uno stuolo di guappi: il nuovo Peppino non riesce a reagire, è paralizzato. Si salva perché l’amico Totò e l’amata Rita sparano e uccidono gli aggressori.
Teme vendette. Alla fine diventa un “viaggiatore” come aveva predetto la prostituta tunisina. Abbandona Napoli e si trasferisce in Pasador, un fantomatico ed esotico paese del Sud America. Trova la luce, un sole forte e scintillante. Vive con Rita, gira senza cappello a larghe tese, giacca e cravatta.
Si taglia i capelli da un compaesano di Napoli in un negozio di barbiere all’aperto, sotto un albero. Su una stupenda spiaggia si rilassa. Legge Il Corriere della Sera e sobbalza: arrestato Totò il macellaio, il nuovo boss. È Totò, il suo carissimo amico di una vita.