Un secondo referendum sulla Brexit è «una fantasia» per Boris Johnson. Jeremy Corbyn invece è favorevole a un referendum bis sull’adesione all’Unione europea ma rinvia la decisione su quale indicazione dare agli elettori: libertà di voto o dire addio a Bruxelles.
Il primo ministro conservatore, scatenato populista sovranista (in un partito con una forte minoranza europeista), vuole l’uscita del Regno Unito dalla Ue il 31 ottobre ad ogni costo: con o senza accordo con la commissione europea. Il leader laburista, prudente euroscettico (in un partito a maggioranza europeista), vuole evitare con ogni mezzo il divorzio senza intesa perché causerebbe «un massacro sociale» con il crollo del sistema produttivo, dell’occupazione, della sterlina (già da tempo in picchiata). Johnson ha perso la maggioranza alla Camera dei comuni ma non c’è all’orizzonte né un governo Corbyn né un esecutivo delle opposizioni (laburisti, socialdemocratici, nazionalisti scozzesi) contrari alla Brexit o alla “hard Brexit”, la separazione dura senza accordo.
Il Regno Unito è nel caos. Il 23 giugno 2016 il 51% degli elettori votò per l’uscita dalla Ue ma da allora ancora non è stata trovata una soluzione su come realizzare la separazione. Theresa May aveva raggiunto una intesa sul divorzio con la commissione europea ma Westminster l’ha bocciata più volte. In tre anni Londra ha bruciato due primi ministri conservatori (Theresa May e Cameron) e un terzo (Johnson) rischia di fare la stessa fine.
Finora l’irruento premier britannico, sostenitore del divorzio ad ogni costo dall’Europa, ha collezionato solo sconfitte: ha perso la maggioranza in Parlamento per l’addio dei deputati conservatori europeisti, è stato battuto su una legge votata dalle opposizioni per un rinvio della Brexit senza un accordo, la Corte suprema britannica ha bocciato la sua richiesta (approvata dalla regina Elisabetta) di una sospensione di 5 settimane dell’attività di Westminster perché considerata illegittima.
Boris Johnson ora cerca di passare alla riscossa. Ha tuonato a fine settembre nell’aula della Camera appena riaperta e divenuta una bolgia: «Questo Parlamento deve farsi da parte e completare la Brexit, oppure presentare un voto di sfiducia e affrontare finalmente gli elettori». È singolare: Boris Johnson, per ottenere le elezioni politiche anticipate, chiede di essere sfiduciato; Jeremy Corbyn non lo sfiducia perché, prima delle urne, vuole essere sicuro del rinvio della Brexit. Così Corbyn, a Brighton, dall’annuale congresso laburista, ha sollecitato il primo ministro a «valutare la sua posizione», un chiaro invito a dimettersi.
Le conseguenze sono il caos, la paralisi del governo e del Parlamento mentre il tempo scorre inesorabile. La politica britannica lacerata da profondi contrasti è lo specchio della realtà del paese radicalmente diviso: nel referendum di tre anni fa la separazione dall’Europa passò con una maggioranza minima di voti: l’1%. E adesso quell’esile maggioranza sembra addirittura che non esista nemmeno più, perché i ripensamenti sulla scelta sono molti. La politica britannica fa concorrenza, per i salti acrobatici e per la confusione, a quella italiana, segnata da primati ineguagliabili (come l’improvviso passaggio del M5S dal governo con la Lega populista a quello con il Pd riformista, con Giuseppe Conte che succede a se stesso come presidente del Consiglio).
Manovre e contromanovre politiche. Il governo e il Parlamento di Sua maestà sono paralizzati e non riescono a trovare una soluzione, una positiva sintesi dei contrasti. Il tradizionale pragmatismo britannico fatica a trovare una via d’uscita nel tempo del sovranismo populista.