Alle volte è difficile andare d’accordo perfino con se stessi. Il Pd per tre volte ha votato contro il taglio dei parlamentari voluto dal governo Conte-Di Maio-Salvini. Per tre volte ha votato contro la riforma costituzionale voluta fortissimamente da Luigi Di Maio. La quarta volta, invece, il Pd alla Camera ha votato a favore assieme anche a chi l’aveva sempre contestata in precedenza come Forza Italia (nel centro-destra) e Leu (nel centro-sinistra).
L’8 ottobre c’è stato un plebiscito a Montecitorio: 553 sì contro appena 14 no. Zingaretti si è arreso a Di Maio, ai cinquestelle e al diktat per far partire il nuovo governo giallo-rosso, il Conte due. I deputati democratici hanno votato il taglio di 345 parlamentari, un terzo del numero totale. Molti hanno borbottato, pochi hanno criticato la scelta. Nicola Pellicani è stato tra pochi a formalizzare le critiche senza peli sulla lingua: «È un suicidio assistito».
A Montecitorio i deputati di Più Europa della Bonino e il battitore libero Vittorio Sgarbi (secondo il quale è «uno stupro» della Camera) hanno votato contro. Pure qualche grillino dissidente si è defilato. Fine. Zingaretti, Renzi (uscito dal Pd per fondare Italia Viva) e Fratoianni (segretario di Sinistra Italiana-Leu) non hanno avuto il coraggio di dire no come in passato.
Di Maio ha incassato euforico il successo: «È una grandissima vittoria degli italiani». Il capo politico dei cinquestelle è sceso a piazza Montecitorio per esaltare il successo. I militanti pentastellati hanno innalzato un trionfale striscione: «Meno 345 parlamentari. Un miliardo per i cittadini». Nel mirino, come al solito, c’è la lotta contro la “Casta” e quella contro le “poltrone” (due battaglie da non lasciare al segretario della Lega confinato all’opposizione).
Sia chiaro: è possibile ridurre il numero dei parlamentari, ma va realizzato nell’ambito di un progetto di riforma istituzionale complessivo: vanno rivisti anche i pesi e i contrappesi democratici legati alla scelta, va riformulata la legge elettorale anche per non penalizzare la rappresentanza di regioni minori come la Basilicata e il Molise. È tanto vero che il governo Conte due ha annunciato anche l’intenzione di realizzare una riforma istituzionale complessiva: però ha cominciato dalla coda e non dalla testa. L’amore della propaganda populista ha fatto premio. Il successivo passo sarà quello di abolire la libertà di mandato dei parlamentari: una garanzia di autonomia democratica per deputati e senatori.
Il sì di Zingaretti al taglio dei parlamentari poggia formalmente sulla fedeltà ai patti di governo con i grillini. Il segretario democratico vuole mantenere in vita l’esecutivo M5S-Pd-Italia Viva-Leu nato appena ai primi di settembre. In realtà c’è la mancanza di coraggio, l’assenza di un progetto culturale riformista da contrapporre all’egemonia populista grillina anti sistema e anti Parlamento: da sempre il M5S non nutre simpatia per la democrazia rappresentativa.
Certo l’impostazione qualunquista cinquestelle da un anno non brilla più come un tempo: il M5S è caduto al 17% dei voti nelle elezioni europee di maggio dal 32% delle politiche del 2018. Cerca di recuperare consensi finiti alla Lega con scelte popolari anti sistema dirette a tagliare i costi della politica. Ma la democrazia, come tutto, ha dei costi. Se si vogliono reperire risorse in una situazione difficile dei conti pubblici è meglio indirizzare gli sforzi a recuperare i circa 110 miliardi l’anno di evasione fiscale (senza parlare dell’elusione). In questo caso ci sarebbero ampi margini per effettuare altri investimenti e ridurre le tasse (tanto promesse) ai lavoratori e ai pensionati tartassati.
Zingaretti, certo non aiutato dalla scissione di Renzi, subisce l’offensiva di Di Maio. Aveva annunciato la nascita di «un governo di vera svolta», di «discontinuità politica» per assicurare diritti, sviluppo, lavoro, lotta alle disuguaglianze. Invece il Conte due dal taglio dei parlamentari alla riduzione delle imposte con il contagocce sembra muoversi sulle stesse linee del Conte uno.