Bonus, niente riforma del fisco. Matteo Renzi lanciò il bonus fiscale di 80 euro al mese per il ceto medio impoverito (era destinato ai lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi). Anche grazie a quel bonus l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd trionfò nelle elezioni europee del 2014 con il 40% dei voti.
La politica del bonus piace. Adesso Giuseppe Conte manda in pista il bonus di 40 euro al mese (è previsto per i lavoratori salariati con redditi medio-bassi). Il presidente del Consiglio del governo M5S-Pd-Italia Viva-Leu approva anche altri bonus come quello su bancomat e carte di credito (si pagheranno meno imposte sugli acquisti tramite moneta elettronica) e come quello sulle “facciate” (la sistemazione esterna dei palazzi). Si muove per la manovra economica 2020 un po’ come aveva fatto in precedenza Renzi: oltre al bonus 80 euro ne varò anche altri come quello per i bebè e per i diciottenni. Tuttavia alla fine perse sia la presidenza del Consiglio sia la segreteria del Pd dopo una serie di dure sconfitte elettorali.
Così non si disbosca la sterminata giungla tributaria. Le tasse sono troppo alte e troppo numerose. Almeno per i contribuenti onesti, quelli che non evadono o non eludono le imposte. Appena il 12% degli italiani paga il 60% dell’Irpef. A parole tutti concordano: semplificare, ridurre. Soprattutto tagliare le troppe tasse come condizione per rimpinguare il portafoglio vuoto di lavoratori, precari e pensionati. L’obiettivo è anche di far ripartire investimenti e crescita economica. Invece anche con la prossima manovra economica del governo giallo-rosso le tasse aumenterebbero di circa 5 miliardi di euro.
Il problema è enorme, non si può affrontare con i bonus ma solo con una riforma generale del fisco. Berlusconi, Prodi, Renzi, Conte uno e Conte due. Tutti i presidenti del Consiglio della Seconda Repubblica, con l’eccezione di Mario Monti, hanno posto l’obiettivo di tagliare le troppe tasse. Più o meno tutti i governi hanno messo al centro dei loro programmi una riforma del fisco come condizione per non far fuggire le imprese all’estero e far ripartire lo sviluppo. Le varie riforme sono state ipotizzate, pur tra le diverse impostazioni politiche, sempre all’insegna dell’equità e della sostenibilità economica e sociale.
Alla prova dei fatti, però, le tasse raramente sono state ridotte dai governi. Anzi. In molti casi la pressione tributaria, come è avvenuto anche ultimamente, è addirittura aumentata.
Il problema sul quale si sono infranti i sogni dei diversi governi di centro-sinistra, di centro-destra e populisti sono sempre stati i disastrati conti pubblici. Anche questa volta il nodo non cambia. Conte, tra turbolenti vertici a Palazzo Chigi con Di Maio, Zingaretti e Renzi, ha messo le mani avanti sui limitati interventi fiscali dell’esecutivo giallo-rosso anche perché l’economia italiana è tornata in stagnazione e rischia una nuova recessione: «Vorremo fare un taglio al cuneo fiscale più sostanzioso, ma in questa congiuntura non possiamo avere grandi margini».
Ancora una volta va in cantina una riforma fiscale sognata da decenni. Berlusconi, molto sensibile alle esigenze delle imprese, promise di tagliare le tasse o riducendo le aliquote Irpef o introducendo la flat tax ma non ci riuscì e ripiegò sui bonus, sulle azioni settoriali. Il caso tipico è l’Imu. Il leader del centro-destra abolì la tassa sulla prima casa, ripristinata da Monti, quindi eliminata di nuovo da Enrico Letta.
La politica deve offrire una capacità progettuale. Bonus, mezze misure e interventi settoriali (elogiati dalle maggioranze come stimoli positivi e attaccati dalle opposizioni come mance) servono a poco, non hanno l’efficacia di una riforma universale diretta a tutti i cittadini. Alle volte i bonus possono aiutare a mietere voti ma esauriscono presto gli effetti: i trionfatori delle elezioni poi cadono rovinosamente nella polvere.