A marzo Robert Peugeot fu preveggente sul matrimonio Fca-Psa: «Con Fca i pianeti sono allineati». Otto mesi fa non sembrava così. Fiat Chrysler Automobiles mirava a un altro matrimonio, sempre in terra francese, ma con la Renault.
Però ai primi di giugno le trattative finirono in un vicolo cieco per i continui “paletti” messi dal governo francese, così John Elkann chiuse i negoziati: «Non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche».
Adesso la partita si è riaperta. I gruppi Psa e Fca hanno avviato le discussioni per una fusione paritetica. Può nascere un gigante del mercato automobilistico: 8,7 milioni di macchine prodotte l’anno, un fatturato di 50 miliardi di dollari, oltre 400 mila dipendenti, il quarto gruppo del mondo. Psa dispone di marchi francesi e tedeschi (Peugeot, Citroen, Ds, Vauxhall, Opel). La Fca mette in campo marchi italiani e statunitensi (Fiat, Chrysler, Dodge, Jeep, Rum, Alfa Romeo, Maserati, Abarth, Lancia). Il gruppo francese ha grandi competenze sulle nuove tecnologie dei motori elettrici, quello italo-statunitense vanta una forte presenza nell’America del Nord e del Sud.
Entrambi i gruppi hanno l’esigenza di unire le forze, di raggiungere grandi economie di scala per affrontare gli enormi investimenti sull’elettrico, l’idrogeno, l’auto a guida autonoma e connessa. Con l’accordo sono stimati 3,7 miliardi di euro di sinergie. La Borsa di Milano fa il tifo per l’intesa: Fca ha guadagnato addirittura il 18% tra il 30 e il 31 ottobre, i giorni dell’annuncio della fusione.
Il progetto è una fusione paritaria ma il pendolo pende verso Parigi e non verso Torino. Psa avrebbe diversi punti di vantaggio: 1) controllerebbe la maggioranza nel futuro consiglio di amministrazione (6 componenti contro i 5 di Fca); 2) l’amministratore delegato della casa francese Carlo Tavares assumerebbe lo stesso incarico nel nuovo gruppo mentre a John Elkann spetterebbe la presidenza che ora detiene in Fca; 3) la sede legale e fiscale sarebbe Amsterdam ma Tavares piloterebbe l’aggregato industriale da Parigi.
Si delinea la nascita di un nuovo colosso mondiale dell’auto, in grado di competere con la Volkswagen, la Toyota, la Renault-Nissan-Mitsubishi, ma con il cuore e la testa in Francia. Sarebbe una sorta di unione carolingia, sul modello del re franco Carlo Magno che conquistò l’Italia e la Germania fondando nell’800 dopo Cristo l’Impero Romano-Cristiano d’Occidente.
I vantaggi e i pericoli sono molti. Sia il governo francese (proprietario del 12% di Psa, la stessa percentuale della famiglia Peugeot), sia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte hanno chiesto la tutela degli stabilimenti e dell’occupazione nei rispettivi paesi. I sindacati francesi e italiani sono sul chi vive: temono la sovrapposizione produttiva delle fabbriche. Francesca Re David, segretaria della Fiom Cgil, ha espresso «una fortissima preoccupazione» per gli impianti italiani perché la capacità produttiva di 1,5 milioni di auto è utilizzata per meno della metà. Psa e Fca, però, hanno annunciato l’operazione «senza chiusure di stabilimenti».
Agli azionisti di Fca dovrebbe andare un dividendo straordinario di 5,5 miliardi (1,65 miliardi alla Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli-Elkann proprietaria del 28,7% della multinazionale italo-americana). Qualcuno teme la fuga della famiglia Agnelli dall’auto e dall’Italia. Si parlò una prima volta della fuga nella seconda metà degli anni Settanta, nell’Italia scossa dal terrorismo e dagli scioperi.
Ma Gianni Agnelli rifiutò di vendere (la Ford era molto interessata). L’Avvocato disse a Henry Kissinger: «Siamo un esercito nazionale, come potrei trasformarlo in una legione stranierà?». Così non se ne fece niente allora e successivamente, anche se la tentazione di vendere circolò molte volte nella famiglia Agnelli-Elkann.
L’ex amministratore delegato Sergio Marchionne, autore dell’acquisizione della statunitense Chrysler da parte della Fiat e salvatore dei due gruppi, disse due anni fa: «Quando non ci sarò più tutto sarà venduto». John Elkann ha sempre smentito la vendita e la fuga dall’Italia. Il nipote di Gianni Agnelli ha più volte ripetuto: l’impegno verso l’Italia e Torino «è rimasto immutato».