La guerra delle tasse scuote il governo e fa vacillare l’alleanza PD-Cinquestelle, già colpita duramente nel corso delle recenti elezioni umbre. Il problema è che questa volta a creare problemi ai partiti che sostengono il Conte bis non è Matteo Salvini, perché la maggioranza ha fatto tutto da sola.
Insediato in fretta e furia per varare una manovra economica in grado di scongiurare l’aumento dell’IVA dall’anno prossimo, il nuovo esecutivo non aveva alcuna necessità di scatenare la guerra delle tasse. Anzi, visto che doveva reperire i 23 miliardi di euro necessari per disinnescare la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, ossia l’aumento automatico delle aliquote Iva al 13 e al 25 per cento, poteva tranquillamente fermarsi lì. Spiegando agli italiani che aveva mantenuto la sua promessa e aveva evitato una stangata dell’IVA che nasceva da accordi sottoscritti dai governi precedenti.
Invece no. Appena è stato chiaro che in un modo o nell’altro che i 23 miliardi si potevano trovare, l’esecutivo ha pensato bene di aggiungerne altri sette per una manovra da 30 miliardi, in modo da poter mettere la bandierina sulla riduzione del cuneo fiscale e sull’aumento delle pensioni.
Pochi spiccioli, talmente pochi che avrebbero fatto arrabbiare i beneficiari, ma che alla fine hanno scatenato la gara tra ministri a caccia delle nuove risorse (leggi imposte) e di visibilità.
C’era il neoministro dell’Istruzione Fioramonti che dichiarava: «Vorrei delle tasse di scopo: per esempio sulle bibite gassate e sulle merendine». A seguire il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, con la “green tax” per colpire i combustibili con maggiore impatto ambientale, ma che – messa in quella maniera – rischiava di mettere in ginocchio agricoltura e pesca.
Tutti in ordine sparso, i nuovi ministri facevano a gara per proporre imposte di scopo grandi e piccole. Salvini e il centrodestra cominciavano a bersagliare il “governo delle tasse” e il premier Conte era costretto ogni volta a smentire questo o quel nuovo balzello.
Ma il progetto di manovra era stato inviato a Bruxelles e i soldi che mancavano all’appello da qualche parte andavano trovati. Si è passati così dalla padella alla brace, infilando un errore dietro l’altro. Il caso clamoroso è stato l’aumento della cedolare secca (dal 10 al 12,5 per cento) varata dal ministro Gualtieri.
Bersaglio chiaramente sbagliato, perché la “cedolare secca”, ossia l’imposta fissa sugli affitti a canone concordato, era nata dopo anni di battaglia per far emergere decine di migliaia di canoni pagati in nero e quindi non dichiarati al fisco. Puntualmente, Matteo Renzi ha fatto saltare l’aumento e la cedolare secca è tornata al dieci per cento.
Allora sono state prese di mira le auto aziendali, con un’autentica stangata che colpisce imprese, dipendenti che usufruiscono di questo benefit e aziende automobilistiche. Già, perché le auto aziendali rappresentano il 20 per cento delle nuove immatricolazioni. Altra polemica furiosa e altra marcia indietro, questa volta parziale. Senza considerare che introdurre una misura del genere in maniera di fatto retroattiva rischia di far saltare le previsioni di spesa per il personale e – quindi – sballare i conti di migliaia di aziende che utilizzano questa forma di salario differito. Quella delle tasse è diventata così una bomba ad orologeria che rischia di far saltare il governo giallorosso.