Il giorno della civetta: un romanzo, «fulgido esempio di Sicilia come metafora, ma senza fronzoli o retorica, un’opera asciutta», scrive Maria Luisa Agnese su Sette, il settimanale del Corriere della Sera; e ancora: Sciascia partendo dalla mafia, illumina i mali contemporanei, con qualche intuizione sulle vicende umane.
No. Sciascia parte dalla mafia, e lì resta; ce la racconta, ce la spiega negli stessi anni in cui tanti si affannano a negarne l’esistenza; e non solo illumina una realtà negata; indica come la si può sconfiggere: suggerisce di seguire il denaro, e la traccia che resta; e raccomanda di restare sempre nel solco del diritto, della legge; di non illudersi che la si possa sconfiggere con la “terribilità” dell’arbitrio; di non vagheggiare un ritorno ai metodi del prefetto fascista Cesare Mori: che sopra e al di là della legge riesce a stroncare il brigantaggio; ma quando si rivolge alla Cosa Nostra viene prontamente promosso e rimosso: lo nominano senatore del Regno; che la Cosa Nostra si è insinuata nel regime fascista, nel potere; e il regime con eleganza lo toglie dai piedi.
Agnese quella pagina delle ispezioni bancarie e dell’andare ad annusare a certi personaggi e al loro livello di vita, per «trarne il giusto senso», evidentemente non l’ha letta. È quella la pagina chiave dell’intero romanzo. Banalmente si sofferma sul “colore”: la pagina successiva, dove il capo mafia elenca le cinque categorie in cui lui ha suddiviso l’umanità. Le sfugge anche il dialogo tra il capitano Bellodi e il mafioso, e i due parlano della figlia di quest’ultimo, che studia in un costoso collegio svizzero. Tornerà, vaticina Bellodi, dopo aver ben studiato, e proverà ripugnanza per quello che fa e ha fatto il padre. «Lasci stare mia figlia», inveisce il capo mafia che fiuta il pericolo. In molte occasioni Sciascia consigliava di fare una marcia anti-mafia in meno, e piuttosto leggere un libro in più. La stessa cosa che consiglia Gesualdo Bufalino: «Più maestri di scuola» sono per lui un buon antidoto antimafia.
La cultura, insomma; quell’ “italiano” che non è solo l’italiano, è il ragionare, come si legge nell’esemplare pagina di Una storia semplice: l’anziano professore viene interrogato dall’ex allievo, somaro in italiano, e diventato magistrato. L’italiano non è l’italiano ma il ragionare sbotta il professore: fosse stato ancor più somaro, in magistratura di carriera l’ex allievo ne avrebbe fatta di più. Vale non solo per i magistrati.
A conclusione del suo articolo, Agnese scrive che Sciascia «si lanciò nell’estremo azzardo, quello di dubitare del pentitismo e della beatificazione degli eroi antimafia, e in un articolo sul Corriere del 10 gennaio 1987, a poco meno di tre anni dalla morte avvenuta il 20 novembre 1989, si fece eretico di sé stesso, e picconò la sua stessa fede avanzando dubbi sul comportamento di alcuni magistrati e politici siciliani che a suo parere si erano macchiati di carrierismo: citava il giudice Paolo Borsellino, col quale poi peraltro chiarì prima che fosse assassinato».
Dunque: “Estremo azzardo”, che sarebbe dubitare del pentitismo. Se nutrire dubbi, e perfino ripulsa nei confronti di “pentiti” come Pasquale Barra detto ‘o animale’, Giovanni Pandico, Gianni Melluso, e di come sono stati gestiti, con una leggerezza che ha prodotto, per esempio con il maxi blitz napoletano dove si volle coinvolgere Enzo Tortora, sì, lo si ammette: si gioca d’azzardo. E si è recidivi, perché, per restare in Sicilia, e per citare uno solo tra i tanti esempi si nutre qualcosa di ben più del dubbio circa la gestione di Vincenzo Scarantino per quello che riguarda la strage a via D’Amelio. Si è colpevoli di “estremo azzardo” perché si dubita di Balduccio Di Maggio, e degli ultimi “pentimenti” secondo i quali l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli sarebbe nientemeno che il mandante della strage a Capaci. Si dubita, sì.
L’altro “estremo azzardo” di cui Sciascia si sarebbe macchiato, è l’aver dubitato della “beatificazione degli eroi antimafia”. Qui, si cade nel surreale. Sciascia nel citato articolo contesta il comportamento del Consiglio Superiore della Magistratura: che per l’assegnazione dei posti direttivi ha una regola, che platealmente disattende. Per Borsellino adotta un criterio, per Falcone l’esatto opposto. Questo osserva Sciascia, questo rimprovera. E per quel che riguarda i politici: si riferisce al sindaco di Palermo Leoluca Orlando (per inciso: lo stesso che con Alfredo Galasso e Carmine Mancuso denuncia al CSM Falcone accusandolo di tenere chiuse nel suo cassetto le verità sui delitti eccellenti che hanno insanguinato Palermo); osserva che un amministratore dovrebbe occuparsi di risolvere annosi problemi come quelli del traffico e dell’immondizia che sommerge la città; e che con la patente di antimafioso che si procura, chiunque, dell’opposizione ne contesti e metta in discussione l’operato di amministratore, rischia per questo di essere accusato amico, se non complice, della mafia.
Metteva in guardia, Sciascia, con molto anticipo, di quello che sarebbe potuto accadere facendo leva sulla retorica e “spirito critico mancando”. Aveva torto? Basta sfogliare le pagine de I tragediatori, il documentato libro scritto da Francesco Forgione, ex presidente della commissione parlamentare Antimafia, con prefazione di Giuseppe Di Lello, magistrato del pool antimafia con Falcone e Borsellino; consigliabile anche la lettura de Il sistema Montante, scritto dall’ex sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto.
È un pensiero pessimo, lo si cancella subito, ma intanto è venuto. Agnese l’italiano lo conosce; i suoi componimenti meritano un buon voto. Forse, chissà, per una volta Sciascia si è sbagliato: anche chi l’italiano lo conosce può essere simile al magistrato di Una storia semplice.