I giornali continuano a perdere lettori, copie e pubblicità. È una crisi planetaria che fino ad oggi nessun paese è riuscito a risolvere. Adesso, dalla periferia dell’Unione Europea arriva una proposta.
È emersa durante un recente convegno del sindacato dei giornalisti portoghesi: un finanziamento organico dello Stato ai media, quindi a tutta l’informazione: alla carta stampata che si avvia al crollo, ma anche alla televisione, dove i canali generalisti pubblici e privati registrano un crescente calo dell’audience, con la conseguente fuga della pubblicità verso Google e i giganti digitali. A giustificare questo intervento finanziario dello Stato ci sarebbe il “ruolo sociale” dell’informazione e la sua importanza nello sviluppo della democrazia.
La proposta del sindacato dei giornalisti non arriva a sorpresa. Sull’intervento pubblico a sostegno dell’informazione in Portogallo si discute da più di un anno e l’aiuto dello Stato non viene escluso nemmeno da una parte della classe politica. Al punto, che lo stesso presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo, entro certi limiti, si è dichiarato favorevole.
Ma la dipendenza dallo Stato e dai governi trova anche una pattuglia di contrari. A rappresentare le loro ragioni ha provveduto il 10 dicembre scorso Miguel Tavares, brillante giornalista del quotidiano Publico, con un editoriale dal titolo: «Il giornalismo non ha bisogno di essere salvato dallo Stato». La ragione? Sarebbe «la più perversa delle dipendenze». E allora? Secondo Tavares, che scrive su un giornale di proprietà di un grande gruppo industriale portoghese, bisogna ricordare che «il mecenatismo ideologico ha fatto proliferare i giornali nell’Ottocento e nel Novecento». Quindi, «meglio dipendere da un gruppo economico che dal finanziamento politico».
Se poi tanti giornali continuano a chiudere – sottolinea l’editorialista – è anche perché non sono «un grande affare» e vengono fatti male. Il problema è che di solito «si confondono declino dei mezzi di comunicazione e declino del giornalismo, due cose che, al contrario di quanto si dice, non necessariamente si sovrappongono».
Verità sacrosanta, perché noi giornalisti preferiamo sempre addossare la crisi della carta stampata a Internet, che è rapido, gratuito, e purtroppo pieno di fake news, ma poi sorvoliamo sul fatto che i giornali sono pieni di “notizie” ufficiali, prigionieri di uffici stampa che inondano le redazioni di spot e comunicati spesso pubblicati con il copia e incolla.
Dimentichiamo anche che le prime pagine dei quotidiani sono quasi tutte uguali e seguono la stessa scaletta dei titoli dei Tg. Che troppo spesso mancano verifiche, approfondimenti e inchieste degne di questo nome che vadano oltre i verbali passati dai magistrati. Allora, di che cosa ci lamentiamo?
Comunque sia, facendo un esempio per tutti, desta una certa impressione vedere che in Italia l’Espresso, glorioso settimanale al quale si devono memorabili battaglie politiche e sul quale si sono formate un paio di generazioni di giornalisti, è ormai ridotto a uno scarno e modesto allegato venduto forzosamente la domenica insieme al quotidiano Repubblica, che a sua volta non se la passa tanto bene. Al punto, che poco prima del recente accordo sulla vendita del gruppo alla famiglia Agnelli, è stato oggetto di un tentativo di ritorno del vecchio editore Carlo De Benedetti. L’ingegnere ha cercato di riacquistare il gruppo che pochi anni prima aveva ceduto ai figli accusandoli di non avere “interesse” e “passione” per i giornali.