Cinque giornate di sciopero, due delle quali già effettuate a La Stampa. Uno sciopero a tempo indeterminato delle firme dei redattori sia nell’edizione cartacea sia in quella online.
I giornalisti de La Stampa sono impegnati in una doppia battaglia: 1) compiere un lavoro scrupoloso d’informazione (anche senza firmare gli articoli) in questi giorni pesanti di fine febbraio nei quali il Coronavirus flagella il nord Italia; 2) continuare una dura lotta sindacale contro il direttore Maurizio Molinari e l’azienda. Il Cdr, il sindacato di base del quotidiano torinese, in un comunicato stampa ha motivato le ragioni di una protesta particolarmente impegnativa decisa dall’assemblea dei redattori.
È contestata sia una lesione dei rapporti umani e sindacali (la decisione del trasferimento di 8 giornalisti dalla redazione di Roma a quella di Torino è avvenuta senza un confronto e con «la mancata comunicazione ai singoli») e sia le scelte sulla riorganizzazione del quotidiano in vista del Progetto Digital First.
Sono respinte le scelte dirette solo a ridurre i costi. In particolare i redattori hanno contestato «un sostanzioso taglio della foliazione», un nuovo ricorso alla «strada dei prepensionamenti» e «un pesante taglio dei compensi relativi al lavoro domenicale».
L’assemblea dei giornalisti così ha solidarizzato con gli 8 colleghi trasferiti, ha respinto il piano di riorganizzazione indicato da Molinari e ha proclamato gli scioperi. L’auspicio è di riprendere la strada del «confronto e dialogo» perché sono «gli unici strumenti da utilizzare in un momento molto difficile per l’editoria e alla vigilia di un necessario cambiamento dell’organizzazione del lavoro che si annuncia complesso».
La crisi dell’informazione italiana e, in particolare dei quotidiani, è ormai un grave problema antico. Da oltre dieci anni crollano le copie vendute e la pubblicità dei giornali e delle riviste. I dati sul ridimensionamento e sulla chiusura dei quotidiani e delle edicole sono spaventosi. Gli editori hanno risposto a dei gravi problemi strutturali (crisi economica, concorrenza delle televisioni e di Internet) soprattutto sul piano della riduzione dei costi e del taglio degli organici.
Troppo poco, invece, è stato l’impegno sugli investimenti in particolare sulla qualità dei giornali e sulla nuova frontiera dell’informazione digitale. Non è possibile fare un’informazione vincente ispirandosi solo al passato e non al futuro, ma è un suicidio voler pubblicare giornali sempre più centralizzati, di scarsa qualità, confezionati da pochi o addirittura “senza giornalisti”. Alle volte si confondono perfino le figure professionali dei giornalisti con quelle dei comunicatori, non si fa un favore a nessuno e si causano solo danni alla credibilità dei giornali.
La battaglia dei giornalisti de La Stampa è importante perché solleva una questione di grande rilevanza. È una lotta importante per il quotidiano torinese, per il gruppo editoriale Gedi (è in corso il probabile passaggio di proprietà dalla famiglia De Benedetti a quella Agnelli), e per tutta l’informazione italiana.
La coraggiosa lotta in solitaria dei redattori della Stampa rompe il silenzio (molte volte un supino consenso) verso le scelte sbagliate degli editori di affrontare in genere la crisi solo riducendo i costi.
La grave crisi finanziaria, industriale e occupazionale dei giornali troppe volte ha causato e causa drastici ridimensionamenti o addirittura chiusure di quotidiani e riviste senza troppe lacrime. La “tagliola” scatta anche più facilmente perché gli editori alzano la bandiera dei prepensionamenti (a spese dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti), divenuti perfino un miraggio per le tante redazioni sfruttate e spaventate dalla crisi. I governi della Seconda e della Terza Repubblica hanno assistito impassibili alla crisi, senza un progetto di rilancio dell’editoria e dell’informazione complessiva: carta stampata, giornali online, televisioni, radio, agenzie stampa. Anzi dei politici e degli uomini di governo, non hanno nascosto una certa allegria quando ha chiuso un giornale. Sarà un caso?