Con l’Italia in quarantena e l’inevitabile calo dei voli causato dal Coronavirus, l’Alitalia è in pieno stallo. Il problema è che la compagnia è messa malissimo ed è un pozzo senza fondo. Continua a volare in forte perdita, ma alla vigilia dell’estate avrà bruciato anche l’ultima tranche del “prestito ponte” concesso dallo Stato.
Adesso che è arrivato il Coronavirus è del tutto evidente che perdere tre anni di commissariamento senza ristrutturare, senza risanare e senza riuscire a vendere è stato un suicidio. Ed è assolutamente incredibile aver affidato all’attuale commissario unico soltanto il compito di tagliare. Perché la riduzione della flotta, con il mancato rinnovo dei contratti di leasing in scadenza e la messa a terra di aerei destinati al lungo raggio, rischia di peggiorare la situazione, visto che oggi tutte le grandi compagnie aeree guadagnano soprattutto con i voli intercontinentali.
Da questo punto di vista vale la pena di andare a guardare quello che sta accadendo per la Tap, la compagnia di bandiera portoghese controllata al 50 per cento dallo Stato, che invece compra nuovi aerei proprio per incrementare il lungo raggio. Nazionalizzata nel 1975, dopo la Rivoluzione dei Garofani, privatizzata ai tempi della Troika, la Tap – esattamente come l’Alitalia e tutte le medie compagnie aeree nazionali – in questi anni ha dovuto fare i conti con la concorrenza delle low cost, da un lato, e con quella dei colossi del trasporto aereo sulle rotte internazionali dall’altro. Ma, a differenza dell’Alitalia, sta cercando di rompere l’accerchiamento con una aggressiva politica di sviluppo sostenuta dal governo Costa.
Per capirne di più, basta partire dalle polemiche di questi giorni sui premi di produzione elargiti dall’azienda ai dirigenti, nonostante il deficit di bilancio, che nel 2019 è stato di 105 milioni di euro. L’opposizione ha accusato il governo di aver consentito questo spreco di “danaro pubblico” per premiare il top management di una società in deficit controllata per metà dallo Stato. E il governo, dopo aver ammesso che forse non era il caso, ha alzato le mani, sostenendo di non poter intervenire, perché la gestione della società è – per contratto – tutta nelle mani di Atlantic Gateway, il socio privato che controlla il 45 per cento.
E qui arriviamo al punto. La strategia del governo Costa per rilanciare la Tap. Un piano elaborato nel 2015, quando lo Stato ha deciso di aumentare la sua partecipazione azionaria dal 34 a 50 per cento consentendo ad Atlantic Gateway di alleggerire la sua esposizione scendendo dal 61 al 45 per cento, ma con pieni poteri e completa libertà di gestione.
Autonomia rivendicata orgogliosamente dall’amministratore delegato della Tap, Antonealdo Neves, il 20 febbraio scorso nel corso della conferenza stampa di presentazione del bilancio 2019. Analizzando i dati, il Ceo, ha precisato che i 105 milioni di deficit dell’anno scorso sono il risultato di un passivo di 119 milioni accumulato nel primo semestre e di un attivo di 14 realizzato nel secondo semestre. Cosa che si spiega con l’impatto dei costi sostenuti nella prima parte dell’anno per i nuovi 30 Airbus di ultima generazione comprati per sostituire 18 vecchi aerei messi a terra. Ma, nel secondo semestre, quando i nuovi velivoli sono entrati in funzione, consentendo di aprire nuove rotte, di incrementare i collegamenti con il Brasile e soprattutto verso gli Stati Uniti, anche gli incassi hanno cominciato a prendere il volo.
Naturalmente Neves non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti sui bonus elargiti ai dirigenti, ma la sua risposta era sottintesa nella presentazione, e suonava più o meno così: abbiamo messo a punto una strategia industriale di espansione e i risultati stanno arrivando. Quindi premiare i dirigenti era giusto…