La televisione, come quando ero piccola, è tornata ad essere al centro delle mie serate. Allora aspettavo Carosello, adesso il bollettino di guerra. E se i primi giorni lo facevo con l’ansia di sapere l’andamento reale dei contagi, per capire la situazione in Italia e nel mondo, adesso lo faccio con l’angoscia di vedere cortei di bare.
Questa è certamente la realtà, ma dopo tanti giorni mi chiedo a cosa servano certe immagini. Se è importante aggiornare i telespettatori sull’andamento generale del coronavirus, i numeri, che troppo spesso non sono significativi per mancanza di riferimenti accertati, sono come mitragliate allo stomaco che non aggiungono nulla allo scenario già drammatico.
Le immagini poi di pazienti intubati, di braccia con flebo attaccate, di gambe scomposte dentro un letto di terapie intensive sovraccariche tolgono ogni dignità a quelle povere persone cui la privacy ha regalato il beneficio della sfumatura del volto.
Vorrei chiedere a Formigli, il conduttore di Piazza Pulita, che diritto ha di fare questo. Come si permette di entrare in casa di persone che hanno appena perso un congiunto. Persone in isolamento, che si prestano ad essere intervistate magari per sfogare il proprio dolore. Vorrei chiedere a Massimo Giletti che diritto ha di commuoversi in diretta nel conforto di uno studio televisivo mentre la gente fuori piange sul serio.
E poi vorrei chiedere a Zoro cosa c’è da ridacchiare sui tanti provvedimenti presi dal governo, sicuramente giustificati solo dall’emergenza, ma proprio per questo da rispettare comunque e senza riderci sopra. E infine dire a Zerocalcare, che ancora faticava a capire, che se tutti uscissero, come voleva fare lui, le strade sarebbero piene di gente e le bare di altri morti. Infine vorrei dire a tutti che di fronte alla morte c’è solo il silenzio.
Perché parlo di tutta La7? Perché è quella che seguo di più. Ma il problema dell’informazione e della televisione, in tempi di pandemia, riguarda tutti. A cominciare dal servizio pubblico, e quindi dalla Rai, ai cui dirigenti il regista Pupi Avati ha scritto una bellissima lettera-appello sul Corriere della Sera.
«Mi chiedo – scrive Avati – perché in questo tempo sospeso, fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la Rai, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza all’Auditel, non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti , la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro, al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti».
Naturalmente non succederà nulla e i vertici di Viale Mazzini non raccoglieranno la proposta. Mentre Giletti, dagli schermi de La7, si è limitato a replicare che lui e i colleghi della sua Rete fanno “informazione”. Mi limito a osservare solo che compito dell’informazione, specialmente in un momento drammatico come questo che stiamo vivendo, è quello di dare una “informazione” seria e onesta. Perché delle tragedie non si può fare spettacolo.