Racconta Fedro, che una volta una rana vede un bue in un prato. Rosa dall’invidia per l’imponenza del bue, prende a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiede ai presenti se è diventata più grande del bue. No, rispondono. Riprende a gonfiarsi con maggiore sforzo, di nuovo chiede chi sia più grande. Stessa risposta: “Il bue”. Sdegnata, cerca di gonfiarsi ancora di più; finisce che scoppia e muore. Fedro ne ricava che quando gli uomini piccoli vogliono imitare i grandi, finiscono male.
Luigi Di Maio, un tempo leader del M5S con velleità di tornare a esserlo, fa sapere che a lui «non risultano riscatti» pagati per la liberazione di Silvia Romano, «altrimenti dovrei dirlo». E ancora: «Perché la parola di un terrorista che viene intervistato vale più di quella dello Stato italiano?».
Uno: il ministro degli Esteri non deve sapere se si siano pagati o no riscatti. Lui stesso ha fatto sapere della sua irritazione per aver saputo che la ragazza era stata liberata solo a cose fatte. Lo hanno tenuto all’oscuro fino alla conclusione della trattativa ed è ovvio che lo abbiano tenuto all’oscuro anche di come la trattativa si è svolta. E perché mai gli avrebbero dovuto comunicare qualcosa? L’operazione è targata “servizi” che rispondono al presidente del Consiglio; è con lui che hanno un rapporto fiduciario, e non con un ministro, sia pure degli Esteri, sia pure Di Maio. Se ne faccia una ragione: si muovono tante foglie a prescindere dalla sua volontà e conoscenza.
Due: quand’anche Di Maio sapesse di riscatti, di sicuro dovrebbe tacere, la riservatezza diventa un dovere; e per quel che riguarda questa storia, già anche troppo si è “esibito” e goffamente.
Tre: alla domanda «Perché la parola di un terrorista vale più di quella dello Stato italiano». Con tutto il rispetto per il signor ministro, non siamo ancora a «L’Etat c’est moi!» di Luigi XIV; in Italia Di Maio è il primo Luigi, e sommessamente: basta e avanza.