Domani inviterò a casa un’amica conosciuta da poco. Parleremo, prenderemo un aperitivo, poi una cena (a distanza). È il suo compleanno, ma niente torta, ci fosse mai un drone che ci individua, e qualcuno poi viene a contestare che si tratta di una “festa”.
Prima di farla entrare a casa, naturalmente la sanificherò: guanti, mascherina, lavaggio accurato delle mani, lascerà fuori le scarpe.
Le chiederò di portarsi un cambio d’abito, perché così si può disfare di quelli indossati per venire a trovarmi. Lei pure, per tranquillità, mi chiederà un certificato da cui risulti che il bagno per gli ospiti è stato sanificato qualche ora prima, e mi sono assicurato di cambiare asciugamani e saponetta.
Si berrà del vino, non per festeggiare, solo per dire: «Mille di questi tuoi giorni», e rendere più digeribile la cena. Lei è semi-astemia, io pure.
Forse perderemo un po’ il controllo di noi stessi. Forse nell’accompagnarla all’ingresso ci si sbaglierà, per errore si finirà nella camera da letto. A questo punto, troppo stanca, chiederà di dormire da me. Dirò di sì, ma prima le farò firmare una certificazione che siamo “congiunti”. Dopo di che, per non dichiarare il falso, cercheremo di congiungerci davvero…
La mattina seguente faremo colazione insieme in un bar vicino: un paio di metri di distanza, con mascherina, guanti, caffè in bicchiere di cartoncino o plastica, niente cucchiaino, asticella anche questa di plastica.
Ci si vede stasera? Sceglilo tu il ristorante 41-bis, io porto la carta di credito perché «è vivamente sconsigliato» pagare in contanti. Il denaro non puzza, ma può portare virus (la plastica della carta di credito invece, quella la igienizzo e così coronavirus tié!; e anche il fisco è contento, perché resta una “traccia”, e magari fra un paio d’anni di quella spesa dovrò rendere conto…).