Prestito Fca sì, prestito Fca no. Fiat Chrysler Automobiles (un tempo semplicemente Fiat) era e ancora è, forse, un simbolo alto dell’Italia. È un po’ come il Vaticano. Fca è un grande potere industriale globale con le impronte digitali italiane, la Chiesa cattolica è uno straordinario potere religioso presente in tutto il mondo e storicamente con la sede a Roma.
Gianni Agnelli, uomo immerso nella realtà politica e in quella industriale del mondo, era però cosciente della funzione di identità nazionale del Lingotto. L’Avvocato, questo il suo «nome d’arte», così rifiutò di vendere la Fiat e illustrò il motivo ad Henry Kissinger: «Siamo un esercito nazionale, come potrei trasformarlo in una legione straniera?».
In molti hanno contestato in Italia il prestito di 6,3 miliardi di euro chiesto da Fca a Bancaintesa, garantito dalla Sace e dallo Stato italiano. I critici hanno respinto la richiesta con una argomentazione tecnica (il gruppo è una multinazionale con sede all’estero) e una politica (gli investimenti di questi ultimi anni sono andati soprattutto alle fabbriche negli Stati Uniti e in Brasile).
I favorevoli al prestito (in testa Giuseppe Conte) hanno ribattuto con un’altra motivazione tecnica (la richiesta è arrivata da Fca Italia) e una seconda politica (i fondi garantiranno gli investimenti nel Belpaese). Il Lingotto gioca tre carte: 1) Fca completerà gli investimenti per i nuovi modelli (soprattutto elettrici e ibridi) programmati negli stabilimenti italiani; 2) il gruppo sarà in grado di pagare i dipendenti e i fornitori italiani (le aziende nazionali di componentistica per l’auto sono apprezzate a livello internazionale); 3) tutti i governi del mondo stanno sostenendo in vari modi i rispettivi gruppi automobilistici devastati dal Coronavirus (gli impianti delle varie case, in genere, sono stati chiusi per due mesi per combattere i contagi e perché le vendite si sono quasi azzerate).
John Elkann, con un accordo annunciato a novembre e firmato a dicembre, ha stabilito «una fusione paritaria» Fca-Psa da realizzare entro l’inizio del 2021. Il Coronavirus, che ha messo in ginocchio tutte le case automobilistiche del mondo, non ha infranto il matrimonio tra il gruppo italo-americano e quello francese ancora in attesa di un nome. Il presidente di Fca a fine maggio ha scandito: la fusione con Psa «ora ha ancora più senso».
Elkann è orgoglioso di suo nonno Gianni e del suo bisnonno Giovanni che hanno fondato l’azienda e l’hanno trasformata in un gruppo automobilistico potente: la famiglia Agnelli già in passato «ha superato guerre, rivoluzioni, crisi, pandemie». È orgoglioso dell’azienda: non a caso nel 2019, a 120 anni dalla fondazione del Lingotto, è stata presentata la “120”, un nuovo modello di utilitaria elettrica avveniristica forse in vendita dal 2020.
Già, la famiglia Agnelli ha superato finora grandi difficoltà restando proprietaria del gruppo e conservando lo scettro del comando. Il pericolo dell’addio, però, adesso esiste. La Fiat, con la metamorfosi in Fca, sempre di più è diventata americana e si è allontanata dall’Italia (ha ridotto investimenti, produzione e occupazione). Il gruppo da qualche anno non ha più la sua direzione a Torino, la sua sede legale è ad Amsterdam, quella fiscale a Londra e quella operativa, di fatto, a Detroit.
La “fusione paritaria” con Psa creerà il quarto produttore di macchine del mondo con grandi sinergie e potenzialità di crescita e non è detto che lo scettro del comando sia paritario. L’amministratore delegato sarà Carlos Tavares, il grande timoniere del gruppo francese, e il presidente Elkann. Le decisioni operative del nuovo gruppo con un consiglio di amministrazione in maggioranza Psa saranno prese da Tavares che lavora a Parigi. La Francia potrebbe essere un magnete sempre più forte a danno dell’Italia.
Forse la fusione non sarà così paritaria e, alla fine, lo scettro del comando potrebbe passare dalla famiglia Agnelli-Elkann a quella Peugeot e ad altri soci francesi. Il governo di Parigi ci tiene molto all’auto: è già proprietario di una quota azionaria di Psa e di Renault. Gianni Agnelli era molto attaccato alla Fiat, a Torino e all’Italia. Dopo la Seconda guerra mondiale disse: «Siamo sempre qui» a Torino. Certo era un’altra epoca.