Sommersi dalle parole, seppelliti dalle immagini, confusi dai messaggi infiniti e contraddittori, eppure, per assurdo, tutti sembrano convinti di possedere la verità, di conoscere la strada maestra per ogni problema, di essere in possesso della cura migliore, della soluzione più adatta…ma non si tratta della medesima soluzione, della stessa cura, di un’unica verità…la realtà quella vera, quella dalle mille sfaccettature è, invece, sempre più difficile da intravedere, quasi nascosta nelle nebbie degli infiniti stimoli e delle tante convinzioni.
È così che appare oggi l’Italia, l’Europa, il Mondo? Ben venga il dubbio, l’incertezza, come diceva Cartesio: «Il dubbio è l’inizio della conoscenza», o Voltaire: «Il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno».
A volte per andare avanti occorre guardare indietro, fermarsi a pensare, recuperare qualche “radice” e scrollarsi di dosso qualsiasi certezza. Ricominciare il ragionamento da zero.
Lasciamo stare Cartesio e Voltaire… e come ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella torniamo a quei giorni tragici del dopoguerra, certo gli effetti della pandemia e le condizioni del Paese in quegli anni non sono propriamente paragonabili, ma di certo dovrebbero esserlo lo spirito e la volontà che furono alla base della ricostruzione. È quell’unità di intenti, quella volontà e quello spirito che il presidente ha voluto ricordare.
«La nascita della Repubblica, nel 1946, segnava anch’essa un nuovo inizio. Superando divisioni che avevano lacerato il Paese, per fare della Repubblica la casa di tutti, sulla base dei valori di libertà, pace e democrazia.
Forze politiche, che erano divise, distanti e contrapposte su molti punti, trovavano il modo di collaborare nella redazione della nostra Costituzione, convergendo nella condivisione di valori e principi su cui fondare la nostra democrazia.
Quello spirito costituente rappresentò il principale motore della rinascita dell’Italia. Seppe unire gli italiani, al di là delle appartenenze, nella convinzione che soltanto insieme si sarebbe potuta affrontare la condizione di estrema difficoltà nella quale il Paese era precipitato.
Questa sostanziale unità morale è stata il vero cemento che ha fatto nascere e ha tenuto insieme la Repubblica. È quel che ci fa riconoscere, ancora oggi, legati da un comune destino.
Allora si reagiva ai lutti, alle sofferenze e alle distruzioni della guerra. Oggi dobbiamo contrastare un nemico invisibile, per molti aspetti sconosciuto, imprevedibile, che ha sconvolto le nostre esistenze e abitudini consolidate. Ha costretto a interrompere relazioni sociali, a chiudere le scuole. Ha messo a rischio tanti progetti di vita e di lavoro. Ha posto a durissima prova la struttura produttiva del nostro Paese.
Possiamo assumere questa giornata come emblematica per l’inizio della nostra ripartenza»…. «La nascita della Repubblica, nel 1946, segnava anch’essa un nuovo inizio. Superando divisioni che avevano lacerato il Paese, per fare della Repubblica la casa di tutti, sulla base dei valori di libertà, pace e democrazia.
Forze politiche, che erano divise, distanti e contrapposte su molti punti, trovavano il modo di collaborare nella redazione della nostra Costituzione, convergendo nella condivisione di valori e principi su cui fondare la nostra democrazia».
Ma non c’è ripartenza se non si trova il modo, tutti assieme, di onorare in qualche modo, le decine di migliaia di vittime, le migliaia di persone che quasi volontariamente sono state sacrificate e abbandonate, condannate a sopravvivere vincendo, senza cure, la malattia, o morire. Senza contare che nell’emergenza sono stati completamente ignorati tutti gli altri pazienti (tanto che alcuni medici paventano una pandemia di tumori), gravi e meno gravi, e i caduti su questo fronte nessuno sarà in grado di fornirli.
E questo pone un serio problema sul Servizio Sanitario Nazionale, di certo non su chi ci lavora che ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio il suo impegno, ma sull’organizzazione, sulla struttura, sulla regionalizzazione senza un quadro legislativo nazionale certo di riferimento.
Una proposta è stata lanciata sulle pagine di Repubblica da Corrado Augias e fatta propria da monsignor Vincenzo Paglia: «Ciò che però ha colpito tutti noi, più ancora del numero delle vittime, è stato il fatto che non abbiamo potuto vivere alcun gesto di commiato, civile o religioso, per i nostri defunti, nel tempo della pandemia, anche di quelli morti per altri motivi. È stato questo lo scandalo che abbiamo provato tutti vedendo le immagini dei camion dell’esercito che portavano via le salme da Bergamo. È stata l’infinita tristezza che hanno provato molti congiunti che non hanno potuto accompagnare i loro cari in questo passaggio decisivo della loro esistenza. Perché se c’è una morte ancor più insopportabile, questa è quella vissuta in solitudine, e grande merito hanno avuto quei medici e infermieri che si sono sostituiti ai parenti in quello stare vicino che non evita la morte, ma la rende meno insopportabile. Per questo motivo sono molto favorevole alla proposta, di istituire una Giornata nazionale per la commemorazione di tutte le vittime del Covid 19».
Sulla stessa lunghezza d’onda l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi: «L’uomo, come disse Thomas Merton, non è un’isola. Non può essere un’isola. La solitudine può essere, nel nostro tempo, una malattia. Individuale e sociale. Gli anziani che non potevamo andare a trovare, i figli che hanno visto i loro padri e le loro madri andare via in solitudine… Tutto questo, per fortuna, ci scandalizza, ci fa male, non ci appartiene, non ci assomiglia. Quelle bare nella notte di Bergamo sono state un pugno nello stomaco. La solitudine, l’idea che gli anziani siano “scartati” è uno scandalo che si è rivelato nella sua brutalità. E non lo possiamo accettare. Ma ciò che di più importante abbiamo imparato in questa crisi è che noi dobbiamo isolare il virus, non l’altro da noi. Qualche volta si fanno coincidere le due cose e questo è suicida, perché siamo tutti “altri” di fronte alla minaccia della vita e ci vuole poco a diventare anche noi il nemico. Così l’isolamento, paradossalmente, può aiutarci a vincere la distanza, se capiamo che il vero isolamento è dal virus, non dall’altro».
Nel 1946 alla nascita della Repubblica c’era un Paese distrutto, un Paese da reinventare, la strada maestra fu quella della Carta Costituzionale, tutti assieme, per scrivere la Carta Fondamentale del nuovo Stato che andava nascendo, ma forse un errore fu commesso: assieme al nuovo andava azzerato completamente il passato, la legislazione degli anni della Monarchia e del Fascismo, invece si sono cancellate solo alcune parti, quelle più controverse e che andavano ad impattare sulle libertà dei cittadini, sulle discriminazioni…La Costituzione avrebbe fatto il resto.
Forse abbiamo commesso un errore, un errore che si perpetua ancora oggi con una quantità di leggi e normative che dicono tutto e il contrario di tutto. Un vizio italico? Ancora oggi in piena emergenza per varare delle misure d’urgenza servono centinaia di pagine, riferimenti legislativi ai Regi decreti e un’infinità di articoli che servono solo a complicare la vita di impiegati, professionisti e addetti ai lavori. Una follia. I paesi dell’Est alla caduta del muro di Berlino hanno fatto tabula rasa, sono ripartiti da zero e ormai ci surclassano in semplicità amministrativa, fiscalità, burocrazia. Un solo piccolissimo esempio, sono circa trent’anni che in Italia si parla di carta d’identità elettronica… non aggiungo altro!
Credo che questa considerazione, al di là degli schieramenti politici (e i tanti che si sono susseguiti al Governo, di ogni colore, in questi ultimi 30 anni, ne portano la piena responsabilità) sia condivisibile da tutti. Non sarebbe neanche necessario parlarne, si tratta di agire e di agire in fretta prima che tutto si sfaldi e crolli sotto il peso di una burocrazia e di un potere che la politica, incapace di lungimiranza e di progettualità, delega quotidianamente ai funzionari di grado più elevato, funzionari che hanno un unico scopo: perpetuare il potere reale, da un ministero all’altro, da una società pubblica all’altra; loro sì, pronti a collaborare tra loro senza distinzione di appartenenza, sempre pronti al cambio di casacca. I Governi cambiano i grand commis restano.
Bene ha fatto il filosofo Massimo Cacciari, tra i pochi ad avere ancora una visione prospettica del presente e del futuro, a sottolineare questo aspetto della vicenda: «Opportunità? Ma siamo seri, per favore. Sarà infinitamente peggio! Infinitamente. Più disoccupazione, più poveri, e un Paese in ginocchio, oberato di un debito che tutti sanno che non potrà mai essere pagato. Se l’Europa ci molla, sarà un massacro. Ma di che Italia parlano gli imbonitori, che siedono anche al governo, quando ripetono, forse senza neanche crederci, che “l’Italia riprenderà a correre”? Ma quando mai negli ultimi trent’anni l’Italia ha mai iniziato a correre! Ma in che mondo vivono costoro? Invece di cimentarsi in queste metafore podistiche, cosa aspettano ancora a darci un piano per la ripresa? Siamo nelle mani di burocrazie sempre più scatenate: ma un povero cristo come fa a orientarsi per chiedere un prestito, un sostegno, quando deve fare i conti con documenti di cinquecento pagine! Ma ci sarà ancora qualcuno che s’indigna quando sente ripetere, da una comunicazione mainstream, soprattutto sulle reti televisive pubbliche, che sono stati messi a disposizione 400 miliardi di euro quando da mesi non arrivano neanche i soldi della cassa integrazione o dei bonus promessi? Intere categorie sono alla canna del gas. Ma questa realtà viene mediaticamente sepolta, è come se non esistesse. Ma esiste, eccome se esiste».
Ma si sa il pensiero del filosofo non trova spazio nella politica dello spettacolo e degli annunci.
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