Ferdinando Camon, traumatizzato da quanto avviene negli Stati Uniti, invoca un John o un Robert Kennedy in luogo dell’attuale inquilino della Casa Bianca, un presidente capace di tutto, buono a nulla.
Condivisibile, il suo trauma; anche se chi ha anche una briciola di dimestichezza con gli Stati Uniti deve rassegnarsi: accanto all’America «di Roosevelt, la quinta armata, / l’America era Atlantide, l’America era il cuore, / era il destino, / l’America era Life, / sorrisi e denti bianchi su patinata, / l’America era il mondo sognante e misterioso di Paperino…» (cito l’Amerigo di Francesco Guccini). Sappiamo che convive l’America della Columbine High School, dei suprematisti, del razzismo, del vuoto, imbecille Make America, Great Again (per inciso: proprio questo insistere sul “grande” da fare, anche se lo evoca, non ha nulla a che fare con il reaganiano Let’s Make America Great Again; anzi, a ben vedere rivela quello che non si è, e che si rinuncia ad essere).
Al di là di questo, quello che accade in questi giorni non riguarda i soli cittadini di Minneapolis, degli Stati Uniti. È un veleno che al pari del Covid non conosce frontiere; se una democrazia come quella negli Stati Uniti, è sotto attacco, sotto minaccia, tutti noi lo siamo. Se certi valori sono messi in discussione, pregiudicati, la cosa ci riguarda. Ci riguarda direttamente.
Che negli Stati Uniti la polizia americana spesso riveli un volto violento e apertamente razzista, non è una novità; il “negro” (e l’ispanico) sono visti con occhio particolare, e di conseguenza trattati, con buona pace del fatto che tanti sono i poliziotti anche ai vertici “negri” o ispanici; e anche sindaci o amministratori.
C’è chi invita a considerare il “contesto”. Non saprei dire che contesto si debba considerare, nel caso di George Floyd, il “negro” ucciso a Minneapolis. Delinquente o no, è ammanettato; è sdraiato per terra; disarmato; non oppone particolare resistenza, comunque non è in grado di reagire se non con il fiato che gli resta in gola, quando un poliziotto per una quantità interminabile di minuti gli mette un ginocchio sul collo. Quello dice: «Non respiro», e l’agente nulla, non allenta la presa. Gli altri tre, nulla: guardano. Nessuno dei tre dice: «Ehi! Quello sta male, smetti di premere!». Niente. Nel filmato non sentiamo voci di persone che dicono: «Ehi! Che cosa state facendo? Smettete!». Come sia normale, quello che accade. E il “negro” muore.
Certamente tutte le successive manifestazioni violente non sono giustificabili; vanno condannate senza “se”, senza “ma”. NON giustificare però non significa che non si debba cercare di comprendere. Comprendere NON significa essere indulgenti, “buonisti”, caritatevoli. Significa solo cercare di capire perché certe cose accadono, possono accadere.
La prima cosa da spiegare è come mai dal movimento progressista e anti-razzista negli anni Duemila non emerga un leader con l’autorevolezza, il carisma per guidare giuste rivendicazioni: radicale e insieme flessibile, sognatore e insieme pragmatico; capace di protestare quando si deve protestare, di negoziare quando si deve negoziare, facendo ricorso a due strumenti di lotta inscindibili: nonviolenza e diritto. Perché si deve andare indietro nel tempo, fare ricorso alla scolorita memoria: dopo Martin Luther King chi? Si possono citare Ralph Abernathy, Andrew Young, Jesse Jackson, ma anche loro: vecchia guardia, e ben minore levatura… Ecco, forse una domanda da porsi è questa: perché non c’è più un Martin Luther King, capace oggi, con il suo “I have a dream”, di essere e dare speranza.
Seconda considerazione. Alla Casa Bianca siede, oggi, il più deleterio, dannoso, pericoloso presidente di sempre; al suo confronto anche Andrew Johnson assume la levatura del grande statista.
Ebbene, il “clima”, il “contesto” che si respira non in queste ore, è anche il raccolto della semina di mesi, di anni, di questo presidente: dalla cui bocca escono sempre e solo parole di odio, discriminazione, livore. Smargiassate pericolose come le recenti affermazioni: «Se fossero riusciti a superare la cancellata della Casa Bianca, i manifestanti che protestavano fuori dall’alloggio presidenziale contro l’uccisione di George Floyd sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose che io abbia mai visto».
Solo qualche giorno prima il presidente fa del suo meglio per fomentare le manifestazioni e le proteste contro i lockdown decisi dai governatori. Soffia sul fuoco con i suoi tweet che invitano a “liberare” il Michigan, il Minnesota e la Virginia, tutti a guida democratica, per scatenare un’ondata di manifestazioni anche in altri Stati con governatori repubblicani come il Texas e il Maryland.
Migliaia di morti, e l’unica preoccupazione del presidente è “riaprire” l’America (a modo suo, naturalmente) nel timore di perdere le elezioni. Auspica la ripresa dei comizi, senza il distanziamento sociale, altrimenti «non c’è gusto». Non dice una parola (dov’erano i “suoi” cani?) contro i manifestanti, che in Michigan scendono in piazza armati chiedendo l’arresto della governatrice Gretchen Whitmer con uno slogan che ricorda il suo contro Hillary Clinton: «Lock her up!» (in galera). E quegli energumeni che se anche li incontri a mezzogiorno te la fai sotto, quando occupano con i mitragliatori in mano la sede del locale municipio: ok, ragazzi: «A me sembrano persone molto responsabili».
Alla fine, le due domande cruciali sono: a) Perché si è potuto affermare un Donald Trump? b) Perché non c’è un Martin Luther King?
Alexander Hamilton, Benjamin Franklin Charles Kesler, George Washington, Terry Jordan, James Madison, John Jay, John Mardhall, Richard Hosftadter, Thomas Paine, quante volte si saranno rivoltati nelle loro tombe?