L’incubo è il «debito cattivo». Giuseppe Conte ora gioca tutte le sue carte sul Recovery Fund. Il presidente del Consiglio ha indicato al Parlamento le linee guida del Piano di ripresa dell’Italia. Sono oltre 550 progetti per incassare i 209 miliardi di euro assegnati dall’Unione europea all’Italia per la ricostruzione post Coronavirus.
Ma i conti non tornano. Il governo giallo-rosso dovrà scremare e selezionare i progetti da inviare a ottobre a Bruxelles per una prima valutazione. La spesa complessiva infatti è di quasi 700 miliardi, oltre il triplo dei sussidi e dei prestiti agevolati decisi dall’Europa.
E qui cominciano i guai. Nei progetti c’è di tutto: risorse per la scuola, per la sanità, per digitalizzare famiglie e pubblica amministrazione, per la ricerca, per l’occupazione. Sono previsti interventi per tagliare le tasse (soprattutto sul lavoro), per assumere impiegati pubblici, per introdurre il salario minimo per tutti. C’è perfino l’idea di far marciare autobus e metropolitane gratis, abolendo i biglietti.
Il fondo europeo per la ripresa è «una occasione storica irrinunciabile» per l’Italia, ha avvertito Giuseppe Conte. L’obiettivo centrale del governo è «raddoppiare il tasso di crescita dell’economia» (negli ultimi 10 anni è stato dello 0,8%, la metà della media Ue). È una impresa ardua. In sei mesi Conte ha emanato una pioggia di decreti, una cascata di oltre 100 miliardi di euro in deficit, ma quasi tutti sono andati a misure assistenziali e non ad investimenti per sostenere una stabile crescita dell’economica e dell’occupazione.
È «una occasione storica» che, però, può sfuggire di mano. L’Italia zoppica, ansima. Già prima della pandemia la crisi era forte, adesso è devastante. Le stime danno un drammatico calo del reddito nazionale intorno al 10% nel 2020 ma il Belpaese negli ultimi trent’anni era già andato a fondo. Nel 1990, al tramonto della Prima Repubblica, aveva un reddito praticamente pari a quello di Germania, Regno Unito e Francia, poi subì un tracollo del 30% rispetto ai maggiori paesi europei.
C’è da ricostruire tutto, tuttavia il governo giallo-rosso non sembra avere il fiato sufficiente. Conte dovrebbe imboccare la strada indicata da Mario Draghi del «debito buono» lasciando quella del «debito cattivo». Ma finora il governo Conte due non sembra accogliere le sollecitazioni dell’ex presidente della Bce.
Manca un’idea, un progetto di sviluppo per la rinascita. La Prima Repubblica ricostruì l’Italia distrutta dalla Seconda guerra mondiale. Le Partecipazioni statali si occuparono di autostrade, siderurgia, telecomunicazioni, energia, cantieri navali, banche, trasporto aereo e marittimo. Gli imprenditori privati si occuparono dell’auto, meccanica, elettronica, petrolchimica, chimica, farmaceutica, edilizia. Così l’Italia, da paese arretrato e agricolo, divenne una nazione avanzata, industriale, la seconda manifattura europea dopo la Germania.
Il declino è stato profondo con la Seconda e Terza Repubblica: l’Italia ha perso circa il 25% della sua capacità produttiva; l’industria è stata semi smantellata e il vuoto non è stato riempito né dalla società dei servizi avanzati né dalla società dell’informazione.
Pd e M5S parlano di «un nuovo modello di sviluppo». Al centro c’è la promozione dell’economia verde e delle nuove tecnologie informatiche. Le parole di Zingaretti e Di Maio però restano scritte sull’acqua perché non hanno un seguito. Le imprese grandi e medie continuano a smobilitare in Italia. Il nostro paese patisce la mancanza di una cultura e di una strategia riformista, sconta la scomparsa delle forze riformiste. Il «debito cattivo» fa sempre più paura.
Pesano anche le tante divisioni. Il governo giallo-rosso potrebbe non reggere all’urto delle elezioni amministrative del 20-21 settembre in sette regioni. In caso di disfatta (il centro-sinistra potrebbe perdere perfino nella rossa Toscana) la maggioranza giallo-rossa rischia l’azzeramento. Non a caso Conte ha tenuto fuori se stesso e il governo dalla campagna elettorale. Se il voto dovesse andare male è già pronto a mettere mano a “un rimpasto” dell’esecutivo.