Una mazzata. Il governo giallo-rosso esce a pezzi dalle elezioni regionali. Va male per il centro-sinistra guidato dal Pd, è un disastro per il Movimento 5 stelle. Il centro-destra raccoglie l’ennesimo successo, ma non sfonda. Il voto in sette regioni è solo un mezzo avviso di sfratto per Giuseppe Conte da Palazzo Chigi: il presidente del Consiglio vede sbriciolarsi i cinquestelle, la forza di maggioranza relativa in Parlamento.
I democratici l’hanno spuntata in Campania, in Puglia e nella “rossa” Toscana nella quale l’incertezza era forte. Invece hanno ceduto il controllo delle Marche al centro-destra. I cinquestelle hanno perso sia in alleanza con il Pd (Liguria) sia gareggiando da soli (nelle altre sei regioni). Non hanno ottenuto nessun presidente di regione e hanno perso un mare di voti rispetto al boom ottenuto nelle elezioni politiche del 2018: in quasi tutte le regioni sono sprofondati sotto il 10%. A urne chiuse ieri, lunedì 21 settembre, è giunta anche una “botta” giudiziaria: la sindaca di Torino Chiara Appendino è stata condannata a sei mesi per falso in atto pubblico.
L’unico elemento di conforto è l’esito del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari: il sì ha vinto. La riduzione di deputati e senatori è passata con quasi il 70% dei voti ma con un altissimo tasso di assenteismo (quasi la metà dei votanti).
Gli elettori hanno votato per come sono state amministrate le loro regioni. Chi ha governato bene è stato premiato. Non a caso il compassato leghista Luca Zaia, l’incandescente democratico Vincenzo De Luca e il decisionista ex forzista Giovanni Toti sono stati confermati in modo plebiscitario governatori: il primo del Veneto, il secondo della Campania, il terzo della Liguria.
Tuttavia gli elettori di fatto hanno votato anche guardando all’esecutivo Conte due, sul quale il giudizio non è lusinghiero. Ha perso terreno il Pd mentre è crollato il M5S. Gli elettori e i militanti dei due partiti, ma soprattutto i grillini, mal sopportano la strana alleanza nel governo giallo-rosso dopo anni di violenti e reciproci attacchi.
L’improvvisa intesa di governo tra Zingaretti e Di Maio dopo il naufragio del ministero grillo-leghista non è stata preparata sul piano culturale e non è stata capita. L’obiettivo della lotta «alla destra» non basta per l’intesa mentre si è visto ben poco del declamato «nuovo modello di sviluppo». I continui scontri su molteplici fronti (legge elettorale, economia, giustizia, migranti) hanno indebolito il ministero democratici-cinquestelle. L’esecutivo guidato da Conte è andato bene solo in due battaglie: 1) l’accordo con Bruxelles per gli aiuti dopo la tragedia del Coronavirus (sono arrivati dopo l’abbandono da parte del M5S delle posizioni euroscettiche e sovraniste); 2) il contenimento in Italia del Covid-19 (in altri paesi europei sta causando nuove terribili devastazioni).
Luigi di Maio esulta per la vittoria al referendum: «È un risultato storico». Ma oltre ai grillini anche gli altri partiti hanno invitato a votare sì: Lega, Fratelli d’Italia e lo stesso Pd. La disfatta nelle regionali? Il ministro degli Esteri sembra prendersela con il reggente Crimi: «Non ho mai fatto mistero di aver sempre detto che andassero organizzate diversamente». Nicola Zingaretti invece tira un sospiro di sollievo sulle regionali: «Siamo molto soddisfatti…Il Pd è il primo partito italiano». Infatti dopo una contrastata sfida ha vinto bene Eugenio Giani in Toscana e Michele Emiliano in Puglia.
La coabitazione di governo è difficile. Zingaretti è stato attaccato all’interno del Partito democratico per la subalternità ai pentastellati e qualcuno ha chiesto perfino un nuovo segretario. Di Maio a gennaio è stato costretto alle dimissioni da capo politico per le tante sconfitte elettorali. Le elezioni regionali suonano la campana per il disfacimento del M5S e per l’arretramento del Pd. O cambiano in fretta o sono guai. E sono guai soprattutto per i pentastellati. Sia i democratici sia i grillini parlano di riforme. Già, ma quali e, soprattutto, come?