Ci risiamo, il virus è tornato o meglio non è mai andato via. Ce ne eravamo dimenticati, o abbiamo finto di non vederlo. Mare, vacanze, cene all’aperto, amici. E la seconda ondata di cui si parlava la scorsa primavera? Non è detto che torni, ci siamo illusi, ma è arrivata, prima di quanto ci si potesse aspettare. E ora? Ora le nostre giornate tornano a trascorrere di nuovo tra dubbi e pensieri angosciosi.
È quindi un dejà vu? No è peggio, perché ci si può difendere relativamente poco: le mascherine obbligatorie, il lavaggio frequente delle mani (a proposito, che fastidio il gel troppo appiccicoso), il distanziamento fisico. Il buon senso anche ci potrebbe aiutare ma quello, è noto, è il primo a scomparire nei momenti di ansia. Nessuno vuole o si augura nuovi lockdown, i danni per l’economia sarebbero incalcolabili. Ci si dice allora che con il virus bisogna imparare a convivere. Certo, non c’è scelta, ma le misure adottate individualmente per proteggerci possono davvero metterci al sicuro?
Ci chiudiamo in casa, si esce solo per fare la spesa o a passeggio con il cane. Mascherina ovviamente sempre. Gli amici li sentiamo al telefono, la vecchia zia novantenne non andiamo a trovarla, non si sa mai. Ma non possiamo smettere di vivere. Gli amici no, ma i figli sì, certo che sì.
Una storia. Coppia di “diversamente giovani”, figli due, trentenni. Domenica a pranzo. Giornata bella, luminosa, c’è allegria. Mentre si conversa piacevolmente una telefonata. È un amico del più giovane dei due figli, il batterista del gruppo: sono entrambi musicisti jazz. Il ragazzo ha appena saputo di essere positivo al Coronavirus. Hanno fatto insieme le prove di un concerto alcuni giorni prima. Incredulità, sconcerto poi il panico: «Corri vai a casa tua, non incontrare nessuno, mettiti in isolamento, ti portiamo noi la cena fuori la porta di casa. Devi fare il tampone, subito».
Lunedì. Telefonate convulse al medico di base. Telefona il figlio dal suo isolamento, telefona la madre da casa sua. Niente, occupato. Preoccupazione, senso di impotenza. Intanto si cercano gli ambulatori o le cliniche dove poter fare il tampone rapido a pagamento, per evitare le file mostruose che si vedono nelle immagini dei telegiornali. Sono nell’elenco aggiornato dalla Regione Lazio, ma non hanno ancora a disposizione il materiale per il tampone rapido.
Finalmente il medico risponde, invia via mail la richiesta per il tampone. Il ragazzo corre in automobile in un centro specializzato. Fila chilometrica. Si avvicina un addetto alla sorveglianza: «La richiesta del medico non è quella corretta», afferma, «devi lasciare la fila». «Ma come, sono stato in contatto con un positivo, potrei esserlo anch’io». Il giovane è esasperato. Telefona al medico: «No, dice il dottore, ti assicuro che quella in tuo possesso è la richiesta giusta».
Ma il vigilante non vuole sentire ragioni e gli fa perder il posto in fila (ah la burocrazia e l’eccesso di zelo). La madre del ragazzo allertata corre dal medico di base, che gli fa anche una seconda richiesta per il tampone molecolare e consiglia di provare altrove. «Prova alla Asl di zona», dice la madre portando il secondo certificato al figlio e lasciandoglielo sul cofano della macchina per non avere contatti con lui.
Ok, un’altra fila, anche questa lunghissima, ma soltanto di sette ore. Dalle ore 11 alle 18. Finalmente il tampone rapido, (per inciso andava bene la prima richiesta del medico di base). E l’esito? Domani in giornata «non c’è tempo per processare tutti i tamponi, troppa gente».
Notte agitata. Pensieri angosciosi del tipo «se dovessi avere contagiato i miei genitori non me lo perdonerei». «No, non sarà così» sostiene il padre che ostenta ottimismo per fare coraggio a tutti. La madre assume ansiolitici. Ore 9,30 del giorno successivo: la Asl comunica: «Esito negativo». Risata liberatoria. La grande paura è passata. Ma siamo solo all’inizio della seconda ondata.